Usiamo Internet tutti i giorni, col PC, il tablet e lo smartphone e molto spesso ogni nostra giornata è trasformabile in un flusso di informazioni: oggi mi sono collegato a Facebook, ho messo like e commentato, ho guardato pagine di profili e mandato una richiesta di amicizia che è stata accettata.
Poi ho usato Google per fare delle ricerche, una ricetta perchè mia figlia voleva fare i muffin, poi qualche nome di attore per dirimere una questione tra amici. Ho anche cercato informazioni su un posto dove vorrei andare in vacanza. Poi ho comprato su Amazon un libro, ho aperto Instagram e ho caricato una foto dei muffin, son venuti bene! Ho messo dei cuoricini, certo. Poi Youtube, Facebook di nuovo, l’immancabile email, Google, ancora email… Tutto ciò molto facilmente, come fare zapping con il telecomando.
Senza accorgermi ho lasciato una marea di informazioni: quelle che ho digitato nella ricerca, ma anche i click di preferenze che ho messo sui risultati di Google, i like, gli orari a cui mi sono collegato e da dove l’ho fatto, ho ampliato e consolidato la mia rete di contatti (i like dicono chi è più vicino a me).
Ogni giorno dell’anno, più volte al giorno ci colleghiamo alla rete e immettiamo dati, certo li preleviamo, ma senza saperlo li diamo.
Il libro di Paolo Bottazzini Anatomia del giudizio universale, presi nella rete racconta quali meccanismi sono realmente in gioco quando usiamo Facebook, Google e tutti gli altri servizi online.
Certo abbiamo accettato più o meno inconsciamente di essere tracciati, ma a che servono quei dati che parlano di noi? I dati di tutti intendo, di milioni di persone, non servono per spiare il singolo (o meglio possono essere usati anche per quello, ma non è questo il punto), servono prima di tutto per venderci qualcosa.
I dati, analizzati ed elaborati, servono per farci interagire di più, prevedendo quello che vogliamo cliccare.
Facebook cerca di proporci i contenuti che ci interessano di più, le persone con cui abbiamo maggiore probabilità di interagire e soprattutto i link sponsorizzati su cui potremmo più facilmente cliccare. Più click, più soldi per Facebook, che in realtà non ci ha venduto nulla direttamente, ma ci ha usato da tramite per vendere i nostri click a qualcuno.
Google non è da meno e lo fa in maniera ancora più massiccia, analizzando e unendo i dati del motore di ricerca con quelli di Gmail, Youtube, Google+, Google Maps, etc. con l’obiettivo di farci cliccare sui link degli sponsor (i risultati di ricerca sono diversi e personalizzati per tutti gli utenti, proprio come la bacheca di Facebook). BigG analizza miliardi di informazioni per farci fare dei click.
Questi sono i big data, cioè enormi insiemi di informazioni da analizzare, non un campione (dove la probabilità mette in gioco la bontà dei risultati), ma sono quasi tutte le informazioni esistenti su un problema, per ridurre al minimo la possibilità di sbagliare. I big data possono essere usati anche per estrarre informazioni giuste per risultati per cui i dati non erano stati creati. Un esempio lampante è la capacità di Google di individuare i focolai di un nuovo ceppo di influenza correlando le informazioni geolocalizzate delle parole ricercate dagli utenti nel suo motore.
Google ha tutti i dati delle ricerche e sa da dove vengono tutte le richieste, se molti individui cercano “influenza”, “febbre”, “problemi respiratori” in un arco di tempo e spazio ristretto, lì c’è un focolaio dell’epidemia e Google lo può dire con certezza prima di qualunque analisi dell’OMS.
I big data non sono solo di Internet, per esempio analizzando tutti i dati di vendita dei Walmart si è scoperto che all’annuncio di un uragano si vendono un casino di Pop-Tarts, uno snack tipicamente americano a lunga conservazione. Nessuno si chiede perché, ma quando c’è un allarme uragano negli Stati Uniti i commessi di Walmart tirano fuori le scorte e mettono in evidenza le Pop-Tarts vicino alle casse, così massimizzano le vendite.
Attraverso la storia dei Big data e della Social Network Analysis, il libro di Paolo Bottazzini racconta con esempi reali e con un notevole approfondimento cosa facciamo inconsciamente su Google, su Facebook, su Amazon e sugli altri giganti del web, dal punto di vista di chi governa gli algoritmi.
Descrive pagerank e le tattiche animalesche del motore di ricerca Google per profilarci e darci link precisi, e descrive l’algoritmo edgerank che c’è dietro a Facebook e alla sua pubblicità.
Tutto ciò non toglie nulla alla grandiosità e all’utilità di Internet nella vita di tutti i giorni, ma forse starò più attento ai miei movimenti online. Sicuramente ora sono più consapevole che quello che vedo nei social network e nei motori di ricerca non è per forza la realtà, ma molto spesso è una proiezione di noi e delle nostre amicizie finalizzata a strapparmi l’ennesimo click.
L’impressione che ne deriva è quella di essere a tanto così da Matrix, di essere imprigionati nella rete, in un meccanismo assurdo dove le scelte non vengono fatte perché c’è qualcuno che dice questo è meglio o è peggio, diciamo pure da un punto di vista morale. Scopriamo che Internet è un luogo in cui il meglio o il peggio è solo finalizzato alla vendita e viene svuotato del giudizio. Le scelte di cosa farci vedere, di cosa farci cliccare non sono dettate da un direttore responsabile, o da una linea editoriale di una redazione, non c’è un ideale a guidare le scelte e neanche un buon padre di famiglia che mi consiglia una cosa piuttosto che un’altra. C’è solo un calcolo preciso su milioni di dati, il cui scopo è darmi la cosa che dovrei cliccare, e poi alla fine clicco, perché non posso fare altro.