Niente da fare, nel 2016 la televisione non riesce ancora a raccontare internet. Non ce la fa proprio, ma non ce la fa non tanto per imperizia a inadeguatezza, quanto per dolo, e in questo modo il racconto dominante di internet è sempre lo stesso. Covo di ogni male, luogo di perdizione, hic sunt leones di insidie.
Ma in fondo chi comanda in televisione o nei grandi quotidiani lo fa per tutelarsi: di solito, tiene famiglia.
Antonio Pavolini in Oltre il rumore – Perché non dobbiamo farci raccontare internet dalla tv, tocca proprio questo tema, in un ebook uscito per Informant a ottobre. È un saggio molto interessante quello di Pavolini, che scatta una fotografia dello stato delle cose, e soprattutto agli addetti ai lavori o a chi sull’internet ci sta da un po’ di tempo – non che sia un merito, giusto una constatazione – fa unire i puntini.
Fa tornare in mente tanto di quello che avevamo rimosso della relativamente breve storia di internet in Italia, radiografando i media mainstream incapaci in gran parte di gestire o anche solo di capire le trasformazioni epocali in atto, e “noi”, quelli che vivono ogni giorno il web e i social media. Gli abbiamo fatto qualche domanda.
Partiamo da questo: sul tuo account Twitter hai fissato in alto
#oltreilrumore pic.twitter.com/xC3x6iSJ2X
— antonio pavolini (@antoniocontent) 19 settembre 2016
una gif di Lilli Gruber che per me è straordinaria, che dice tutto
In un istante dice tutto quello che dice il libro. È una gif che riassume visivamente davvero tutto: le ragioni profonde del perché la televisione racconta internet in questo modo, perché deve mandare in onda la pubblicità che la tiene in vita. E perché deve farlo? Perché è l’unico modello di business che ha: nuovi modelli non solo non sono stati trovati ma non sono neanche stati esplorati. L’unico modo per far funzionare la televisione è sempre rimasta la pubblicità o pagare direttamente il contenuto, quello che ieri chiamavamo pay tv, e oggi chiamiamo Netflix. In quella gif non prendo in giro Lilli Gruber, evidenzio come una grande professionista sia una grande piazzista. La gente compra i bastoncini di pesce durante Otto e Mezzo, perché lei non fa un discorso alla Lessig, in cui spiega che la rete è la tecnologia mentre i mali della società sono sempre esistiti, questo non si vede in tv. In tv si mette “TIZIANA E LA RETE CHE UCCIDE” e prima della pubblicità si rilancia in maniera dubitativa “Ma la rete può uccidere? Dopo la pubblicità“.
Leggo nella sinossi del libro che “i media tradizionali si stanno concentrando solo sul rumore di fondo, senza cogliere davvero il punto”
In realtà quando parlo del rumore non dico che la televisione, o i giornali si concentrano sul rumore: io sto dicendo che i media tradizionali creano apposta una cortina di rumore, con l’obiettivo di tenere i fruitori della televisione – che sono una generazione che non conosce ancora bene internet – al “buio”.
Come è rappresentato internet in tv?
Non solo in modo negativo: la cosa che dovrebbe inquietare è che è rappresentato in modo unanimemente negativo. Di solito i nostri telegiornali hanno opinioni diverse, pensa ai talk show. Lì le opinioni sono sempre diverse, c’è tutto: vota sì, vota no, vota forse, dimezza gli stipendi, lasciali come sono. Con internet invece no, sono tutti d’accordo. La trasmissione di Lilli Gruber non è inquietante per quello che dice, ma è inquietante per come è stata organizzata. Pensa agli ospiti: Crepet, uno che bombarderebbe i server in giro per il mondo se potesse, Kim Rossi Stuart, un attore che per scelta, legittima, ha sempre scelto di stare scollegato dai social media, perché gli fanno paura. Ecco: io ho paura delle meduse, ma non è che se facessi una trasmissione sulle meduse inviterei solo persone che odiano le meduse.
A un certo punto del libro a proposto di questo momento sui social media parli di “era dell’inadeguatezza”: che cos’è?
La transizione verso un nuovo paradigma di comunicazione è stata troppo rapida tecnologicamente, culturalmente non siamo preparati. Dopo una prima generazione di persone arrivate su internet – una generazione che in alcuni casi si è chiusa in dibattito autoreferenziale – il problema dell’inadeguatezza è venuto dopo, con 10 milioni di persone su Facebook, che avevano e hanno cultura e pratiche televisive, da cui copiano i codici dai vecchi schermi per incollarli sui nuovi schermi. Ma non dobbiamo stupirci delle “invasioni barbariche” su Facebook: quello che spaventa è che la nostra generazione, che è arrivata prima, di presunti massmediologi, quando sono arrivate le invasioni barbariche si è solo stupita di quanto è stupida la gente. Questo è il modo sbagliato di ragionare. Non sono stupidi. Sono così perché per trent’anni i loro codici sono stati quelli televisivi, semmai il nostro compito sarebbe legarsi, dialogare con queste persone. Non chiudersi nel fortino, screenshottarli tutti, e dileggiarli nelle nostre stanzette.
Un’altra parte del libro che mi è piaciuta molto è quella in cui metti insieme due tendenze opposte, il ricordo e l’effimero. Le Facebook Memories da una parte e Snapchat o le Instagram Stories dall’altro. Dove andranno a finire i nostri ricordi?
Facebook Memories secondo me è una forma di disprezzo del ricordo persino peggiore di Snapchat e di Instagram Stories. Visto che sono riuscito a renderti smemorato, adesso mi occupo io di ripescare i ricordi che voglio io. E quindi tu devi essere stupito da questo smart discovery… ma mi raccomando, non andare tu a cercare la tua memoria. Non andare a usare quel motore di ricerca che sta là fuori. Non usare schifezze come archive.org. Facebook Memories è “la gente è così scema che non si rende conto che i suoi ricordi li gestiamo noi” mentre Snapchat è “la gente è scema, cancelliamo tutto“. È diverso.