Viaggi
di Dailybest 25 Febbraio 2021

La straordinaria normalità del vivere in barca

Edoardo Ghibaudi, ragazzo torinese che ha speso un anno della sua vita vivendo su una barca ormeggiata al largo di un paesino neozelandese, ci ha raccontato la sua esperienza tra Maori e pannelli solari.

Novanta per cento di crocieristi in meno nel 2020 e navi attraccate al Porto di Genova da settimane che escono solo per far girare i motori e risparmiare, di tanto in tanto, sull’affitto del “parcheggio”. Gli equipaggi sono stati messi tutti in cassa integrazione, gli esercizi commerciali, legati direttamente o meno alle vicende del traffico navale, subiscono gli esiti negativi di questo inevitabile giro di vite.  Proprio mentre la mia attenzione è concentrata su questo servizio del Tg, mi sovviene la proposta del mio amico che, rispondendo a un mio invito per incontrarci a Milano il prossimo week end, ha concluso il messaggio, un po’ alla sua maniera, virando bruscamente dal discorso “birrette sui Navigli” al “vuoi scrivere un articolo sul vivere in barca?”. Di tutto punto gli rispondo subito “certo che sì. Quando iniziamo?”, ma dal mio sodale, purtroppo, non ho avuto più notizie. Ma io l’articolo volevo scriverlo ugualmente, del resto, di questi tempi giocare un po’ con il passato è estremamente piacevole.

Paihia, Bay of Islands, Nuova Zelanda  Paihia, Bay of Islands, Nuova Zelanda

L’aspetto che mi preoccupava di più era l’oscillazione. Continua, instancabile, perenne. Pensavo non mi ci sarei mai abituato, divenne poi la cosa cui diedi meno peso nel giro della prima settimana a bordo, a parte quando cucinando gli utensili cominciavano a spostarsi in autonomia. Ma Cerego (così si chiama la barca di Al, il bizzarro cinquantenne Australiano che ci ha permesso di vivere con lui) è ben preparata a questo tipo di piccolezze: questi sono dettagli minimi in confronto ai reali problemi del vivere in barca. Per vivere su una barca a tempo pieno e pretendere di avere gli stessi comfort di una casa sulla terra ferma bisogna essere molto preparati, e avere spirito di sacrificio, perché, a meno che tu non sia Vacchi o Briatore, la vita on board ti domanderà di rivalutare alcune priorità.

Cerego, tutto sommato, è una barca grande. Con mio fratello Nicolò dormivamo io nel sotto scala e lui nella piccola stiva adiacente. Un oblò per lui, un oblò per me. Com’è svegliarsi la mattina e aprire un oblò al posto che alzare una tapparella? Liberatorio. Rilassante, rinfrescante, e la maggior parte delle volte irreale, specie se sei cresciuto in mezzo alle popolari della periferia di Torino e la vista cui sei abituato  sono palazzoni più grandi del tuo. Al ha invece un’intera stanza, sempre al piano di sotto, ma mentre io e mio fratello eravamo a prua, camera sua si ubica affianco alla sala motori. Al piano centrale della barca c’era tutto quello che ci serviva per provare una piacevole sensazione casalinga: un salotto con un divano letto, una tv, un tavolo, un piccolo angolo cottura – il cucinino – dotato di tutto l’essenziale e, naturalmente, la cabina di pilotaggio dalla quale partiva anche la scala che portava ai nostri alloggi .

Cerego  Cerego

Ma la parte migliore era il top deck. L’ultimo piano di Cerego è uno spazio lungo almeno dieci metri completamente aperto con un altro tavolo fissato a terra, pannelli solari sui due lati e una Jacuzzi (che in realtà non abbiamo mai usato). Io lassù mi ci ero praticamente trasferito, avevo aggiunto due materassi, qualche lenzuolo, dei cuscini e, quando la ragazza conosciuta al lavoro che ho frequentato nel mio periodo da marinaio si fermava per la notte, avevamo la nostra suite vista mare immersi nel mozzafiato cielo stellato di una notte Neozelandese.

Insomma, stavamo bene. E avendo trovato un impiego full time nel paesello dove facevamo rifornimento, Paihia – Bay of Islands, non trascorrevo la maggior parte della giornata in barca bensì a lavoro. Dal pass della cucina del ristorante dove lavoravo c’era una finestra molto grande che, oltre a creare un collegamento rapido tra la cucina e il dock, dava modo a noi poveri cuochi rinchiusi per ore tra le stesse quattro mura di avere una bella vista sull’oceano, e dava a me l’incredibile possibilità di vedere casa. Cerego se ne stava laggiù, ormeggiata dove l’avevo lasciata col gommone quando la mattina ero andato a lavorare. Jade, il gatto che viveva con noi, era la riprova di quanto basti essere organizzati per dare un senso di normalità alla propria vita in barca. Certo, bisogna sapere stare dietro a guasti tecnici e meccanici, venti forti che non ti fanno dormire, giornate poco assolate che non permettono ai pannelli di caricare energia a sufficienza per tenere la luce accesa, acqua fredda e con poca pressione per la doccia. Finire la benzina del gommone e rimanere a secco mentre torni verso “casa” di notte dopo una giornata di lavoro. Ma quando stai con un gatto che fa le fusa sul divano mentre ti bevi una birra fresca, pensi proprio che la normalità sia un preconcetto che abbiamo nel corso dei secoli classificato sotto una grande macro categoria piena di stereotipi. La vita in barca è -o diventa- normale quando realizziamo che gli eventi esterni sono parte della normalità stessa della vita in barca e non una costante opposizione alla nostra ricerca di tranquillità.

Cerego, ovvero casa, vista dal ristorante  Cerego, ovvero casa, vista dal ristorante

Sì è vero, si hanno molte più sfide da superare, difficoltà oggettive anche negli aspetti più superficiali della vita (bello quando ti manca una cartina per fumarti la tua ultima sigaretta della giornata e devi prendere il gommone, guidare fino al porto, ormeggiare, andare al negozio) o momenti in cui vorresti semplicemente stare solo, fare due passi, e sei limitato ai 15 metri della tua imbarcazione. Ma tutto ciò di cui ci privava, Cerego lo restituiva sotto altre forme. Quando non lavoravamo, Al portava me e mio fratello per dei piccoli tour tra gli arcipelaghi, avevamo visto così tante volte i delfini che, ormai, non ci provocavano più nessuna emozione. La notte attraccavamo al largo di qualche isoletta e brindavamo a quanto bella fosse la vita. I Maori amici di Al che spesso venivano a farsi un giro a bordo ci avevano presto insegnato a pescare. Non che io e mio fratello fossimo diventati bravi, ma una volta sono persino riuscito a catturare tre pesci di fila e a cucinarli preparando la cena per l’intera ciurma.  ‘So soddisfazioni.

Il gommone con cui tornavamo a bordo  Il gommone con cui tornavamo a bordo

Lavoravamo, eravamo innamorati e vivevamo in una casa galleggiante senza pagare l’affitto. Credo che vivere in barca sia un’esperienza esaltante in ogni caso, ad ogni età e in ogni stagione. Ed io l’ho fatto in Nuova Zelanda a 24 anni in piena estate. Chiedete al cuoco che lavora e vive su una qualunque nave da crociera o al pescatore al largo di Piombino che getta gli ami tra il via vai dei traghetti e sicuramente i loro racconti avranno ben pochi punti in comune col mio. A parte che si oscilla. Ma, sicuramente, anche loro si saranno abituati.

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