La notizia meno drammatica sulle prossime elezioni in Turchia, l’1 novembre, è stata l’ora legale di Erdogan. Per due settimane il presidente ha bloccato il ritorno all’ora solare per avere più luce durante il voto (bah!), mandando in confusione i proprietari di tablet e smartphone, che l’ora se la sono vista aggiornare comunque. A scalare, verso l’Olimpo dispotico, l’occupazione di due emittenti televisive di Istanbul schierate all’opposizione, Bugun tv e Kanalturk, e l’arresto del direttore del settimanale Nokta per un fotomontaggio in prima pagina poco gradito dal presidente. Sua divinità, dopo essersi riparato dietro alla soglia di sbarramento più alta d’Europa, al 10%, e non avendo comunque raggiunto per la prima volta dopo 13 anni la maggioranza nelle elezioni di giugno, cerca in ogni modo di fermare l’avanzata del nuovo (come diremmo qua – di solito a sproposito). Soprattutto a preoccuparlo è l’exploit del partito curdo Hdp, in cui si riconoscono quelle minoranze etniche, religiose e movimenti sociali, che Erdogan vorrebbe cancellare. Ed essendo lui un tradizionalista convinto, con le tecnologie non ha mai saputo farci, bloccando Twitter (tuonò: “Estirperemo i social!“) e YouTube prima delle elezioni municipali o Facebook dopo la pubblicazione delle foto del procuratore che seguiva le indagini sul giovane Berkin Elvan, ucciso dalla polizia durante le manifestazioni contro il governo al parco Gezi di Istanbul. Ma tralasciando (a fatica) la situazione politica, e i modi con cui Erdogan sta cercando consensi nella sua ultima, sfrontata (aggiungiamo pure sanguinosa) campagna elettorale, se la fantademocrazia turca ricorda quella di altri Paesi mediorientali, è nelle città invece che si vedono privatizzazioni e capitalismo di stampo europeo, massicciamente incentivato da Erdogan.
Per esempio, non cercate l’oriente a Istanbul. E se pensate che tuttavia resti il cosmopolitismo di una terra di mezzo, uno snodo fra diversi modi di concepire il mondo, beh, non è proprio così. Il rischio è che in qualche anno diventi una comunissima città europea, esotica forse per le moschee e i richiami alla preghiera dei muezzin, ma perfettamente patinata, à la page, glamour, addolcita per assecondare le necessità di ogni tipo di turista e degli investitori stranieri. In tre o quattro giorni di passeggiate il viaggiatore low cost si convincerà di conoscere Istanbul, antica Costantinopoli, metropoli da 15 milioni di abitanti, estesa su due continenti.
Avviata nel 2005 la negoziazione per entrare nella comunità europea della Turchia, Istanbul è stata candidata alle Olimpiadi del 2020 (persa contro Tokyo) e segue le orme di città come Barcellona e Marsiglia con un rinnovamento che passa da un lato per le infrastrutture e le grandi opere, come un terzo aeroporto o il Marmaray, il collegamento della metropolitana sotto lo stretto del Bosforo, fra il turistico quartiere di Sulthanamet, e quello nel lato orientale di Ṻskṻdar e Kadikoy, quest’ultimo attualmente il più alla moda. Dall’altro, nella riqualificazione dei quartieri più centrali, riqualificazione che le tante persone (non solo ragazzi e classe media) delle proteste Gezi Park del 2013 chiamano pragmaticamente “gentrificazione”, già che esclude chi la abita. Se ricordate, nel parco stavano per iniziare i lavori per costruire l’ennesimo centro commerciale, per di più il progetto lo prevedeva con le sembianze delle vecchie caserme ottomane demolite negli anni ’40. Per due settimane il parco divenne teatro di barricate e guerriglia fra polizia e manifestanti: nove i morti. Uno sviluppo urbano che va di pari passo con l’acutizzarsi della discriminazione dei ceti meno abbienti, di volta in volta espropriati e allontanati dai centri d’interesse urbanistico-commerciale. Insomma una partita molto più importante degli alberi del parco, come in quei giorni molti network italiani pigramente riportavano.
Una volta il quartiere di Galata ospitava fra le sue viuzze ripide un’infinità di negozi di musica, mentre ora è terra di botteghe stilose quanto omologate di sapone e stoffe, in cui è preferibile pagare in euro. A breve sarà la volta di Tarlabasi, a ovest di Taksim, al principio ghettizzato dal centro di Beyoglu da Tarlabasi Bulevar, una strada quattro corsie in cui non è stato previsto nessun passaggio pedonale, poi privata dei servizi minimi, come la raccolta della spazzatura o la manutenzione delle strade, ancora staccando acqua e luce per giorni interi a causa di supposti lavori. Un modo nemmeno troppo sottile per dire: “fuori da qua, per voi ci sono le periferie”. Situazione denunciata anche da Amnesty International. Malgrado tutto Tarlabasi è un quartiere che non si dà per vinto, ancora vivace, con tanta gente in strada, panni appesi, mille bambini, qualche fuoco per riscaldarsi. Le vecchie facciate pastello evocano un antico splendore, chiese ortodosse e moschee ricordano gli immigrati greci e armeni che l’abitavano prima dei pogrom degli anni ’50. Attualmente a viverci sono per la maggioranza curdi, rom, siriani e comunità di neri africani, non esattamente i migliori amici del premier Erdogan. Lo stesso contrasto appare se camminate svogliatamente per la via Turkeli, nel quartiere Aksaray, dove sembra sia facile per i migranti trovare un passaggio illegale verso il sogno europeo. Dopo un tè in strada a cinquanta centesimi di lira turca (meno della metà dei quartieri salotto), dopo aver incrociato mercatini veri e nessun europeo, da una via all’altra vi ritroverete in una piazza conclamata di ristoranti e di allegre compagnie. Di turisti sbronzi. Qui non serve nemmeno più parlare l’inglese, già con l’italiano puoi ordinare un pasto. Che pagherete tre volte tanto di quello della strada adiacente.
“Tipico” è la parola d’ordine del turista, così una forzata caratterizzazione delle nuove architetture in salsa ottomana ha più a che fare con la parcellizzazione dell’ambiente e col profitto che con la storia. Basta sperimentare in macchina il tragitto dal quartiere Besiktas a Taksim e fissare le mille insegne degli alberghi di lusso che hanno prosperato, sovvertendo l’habitat popolare di un tempo. Oppure se un tempo passare da uno dei più antichi bazar del mondo, il Kapalicarsi o gran Bazar, poteva risultare vantaggioso, oggi nessun turco vi consiglierà di farci acquisti, a meno che non voglia accompagnarvi nel negozio di qualche parente. Un segnale diverso, ma comunque nella stessa direzione, è la chiusura delle piccole librerie indipendenti in favore dei grandi franchising, così come dei centri culturali che erano un motore di creatività della città di Istanbul. Si conta che nella via pedonale che da Taksim arriva fino alla torre di Galata, la commerciale Istiklal Caddesi, fra boutique e fast food passino attualmente una media di tre milioni di persone al giorno.
I processi di trasformazione hanno come obiettivo il 2023, anno in cui si celebrerà il centenario della Repubblica turca. Anno in cui, con ogni probabilità, Istanbul sarà un enorme, banale, parco tematico.