Uscito dalla sala, la sensazione era questa: Parkland non è male, le cose girano. Però c’è qualcosa che non torna, in questo racconto dell’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, visto attraverso le esistenze della sua scorta, dei medici del Parkland Memorial Hospital di Dallas (dove Kennedy viene portato morente), del fratello di Lee Harvey Oswald.
Ci ragiono un paio d’ore e non ne vengo a capo, finché non sento un pezzo di conversazione tra altri due giornalisti, in cui Sara Sagrati, dice: “avrebbero dovuto fare una miniserie in sei episodi”. Ecco. Da tre anni io curo Serial Minds, un sito dedicato alle serie tv americane e inglesi. Questo vuol dire che, ogni dodici mesi, mi vedo un centinaio abbondante di pilot, di solito un paio a settimana. Grazie a quel brandello di conversazione, ho realizzato che io Parkland l’ho valutato e analizzato come se fosse un pilot. Deformazione professionale, ovvio. Peccato che sia il pilot di una serie inesistente.
Nel film di Peter Landesman, personaggi e trame vengono introdotti e incrociati alla grande. Ognuno di questi personaggi non ha un ruolo preponderante, tutto viene subordinato a un equilibrio narrativo che dispensa tempi e attenzioni con la precisione del Manuale Cencelli. Con questa tecnica, però, le due ore passano senza lasciare nulla allo spettatore, se non gli ovvi riflessi pavloviani provocati dalle immagini dell’omicidio di Kennedy. Landesman prova a ripetere il progetto di Bobby di Emilio Estevez, ma i risultati non sono nemmeno paragonabili. Là un capolavoro, qui un ibrido senza forza, un prologo per qualcosa che non c’è.
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