Domani sarà presentato al FilmMaker Festival di Milano, Vedozero² il nuovo film di Andrea Caccia. È la seconda parte di un progetto pedagogico che vuole stimolare i ragazzi a prendere consapevolezza del linguaggio audiovisivo. Per un intero anno scolastico 100 studenti di tre istituti superiori di Palermo hanno filmato quello che volevano, raccontando le loro giornate e creando un bellissimo esempio di film collettivo. Abbiamo intervistato il regista Andrea Caccia.
Come è nato il progetto Vedozero²?
Vedozero² parte dal mio interesse per quella che potremo chiamare “l’educazione visiva”, ovvero il lavoro pedagogico che il cinema compie nel momento in cui viene visto o fatto in prima persona. È un film interamente girato da dei ragazzi di quattordici anni che avendo in mano una macchina da presa – perché il cellulare è anche una macchina da presa – provano a utilizzarla per raccontare la loro vita. Dal momento oggi tutti abbiamo uno smartphone, l’atto del filmare è diventato automatico, quasi fisiologico. Se non impariamo a guardare, osservare, riflettere, discernere e usare la macchina da presa in questo modo, difficilmente riusciremo ad orientarci in un mondo ormai sempre più raccontato dalle immagini video.
Vedozero² è un film per ragazzi o è pensato per insegnare qualcosa agli adulti?
È un progetto pensato per tutti, in primis per me, nonostante faccia questo lavoro da più di 25 anni. Guardare la realtà attraverso una macchina da presa richiede necessariamente un pensiero. Una delle cose più straordinarie nel lavorare con i ragazzi è che non c’è neanche il bisogno di fare tante discussioni teoriche, basta farglielo provare e lo capiscono. E così, gradualmente, cominciano a comprendere cos’è il linguaggio del cinema.
Immagino, però, che non si tratti solitamente di raccontare ai ragazzi come si gira un film, sbaglio?
No, non è un laboratorio professionalizzante. Non mi interessa che, dopo il progetto, nascano tanti piccoli registi ma che imparino a pensare usando il telefono. È indubbio che abbiano un pensiero – e non c’era bisogno di Vedozero² per capirlo – ma l’intento è fargli acquisire una maggiore consapevolezza dello strumento che hanno in mano.
Il film sarà proiettato in verticale mantenendo il formato 9:16.
A differenza dall’episodio precedente, dove le immagini venivano riportate nei binari classici del cinema, questo film vuole mostrare allo spettatore un approccio diverso e questo lo si traduce proprio a partire da inquadrature veramente diverse. L’altra grande novità rispetto al primo Videozero è che nei telefoni usati del 2009 non c’era ancora la camera frontale inserita nello schermo. Siamo passati da avere uno strumento con cui guardare quello che ci circonda, ad un specchio che riflette la nostra immagine. Questo tipo di cortocircuito produce una riflessione sull’autorappresentazione che è molto importante nel film.
Sette anni fa gli smartphone non erano ancora così diffusi, a maggior ragione tra i giovanissimi. Che differenze ci sono state nella realizzazione dei due film?
Sono solo sette anni ma, in realtà, sembrano venti. Nel 2009 nessuno dei ragazzi coinvolti aveva dei buoni cellulari per fare le riprese. Prendemmo settanta telefoni, non mi ricordo più il modello, e li consegnammo a loro. Questa volta tutti i ragazzi avevano già un buon smartphone e lo utilizzavano regolarmente. Tolto quanto ti ho già detto nella precedente risposta, la cosa più sorprendente è che non c’è stata una sostanziale differenza di significato tra le immagini dei due film. La cosa interessante è stata notare, però, una certa difficoltà ad acquisire alcune competenze tecniche. Per mantenere alta la qualità delle immagini abbiamo chiesto ai ragazzi di caricare i video su un nostro server. Nonostante fossero al 100% nativi digitali e avessero le dovute istruzioni, molti si stupivano che non bastasse inviare il video su WhatsApp o caricarlo su YouTube. Come a dire che, anche nell’estrema velocità con cui loro si approcciano alla tecnologia, esistono ugualmente dei punti che non sono così immediati.
Quanto ci hai messo a montare il tutto?
Tantissimo, circa sette mesi. La mole di girato era incalcolabile e con la particolare difficoltà che non si trattava solo di seguire un numero preciso di ragazzi per un periodo stabilito impostando un percorso e un possibile sviluppo narrativo. Il numero di studenti coinvolti durante l’intero anno scolastico cambiava sempre: perché c’era chi trova interessante il progetto da subito, chi era timoroso ma poi ci prendeva gusto, chi abbandonava dopo pochi giorni o chi non faceva niente per tre mesi ma poi per un’intera settimana produceva solo video interessanti.
I ragazzi non hanno preso parte in nessun modo a questa fase?
Il montaggio è un lavoro lungo e complesso, fatto di ripensamenti e molti cambiamenti, non puoi mettere un ragazzo affianco a te mentre lavori al computer. Durante tutto il periodo del progetto ci sono stati incontri con delle figure professionali come psicologi ma anche montatori e direttori della fotografia che hanno spiegato bene il lavoro che stavamo facendo. Il mio obiettivo, e lo scoprirò solo domani alla presentazione, era che i ragazzi, una volta visto il film, non si sentissero traditi. Quello è un pezzettino della loro vita, è un film collettivo.
Ora che il film è finito, sai dirci qual è l’aspetto che più ti ha stupito del progetto?
Non vorrei sembrare retorico ma, nonostante spesso ci si dimostri sfiduciati verso le nuove generazioni, io rimango sempre stupito di come i ragazzi siano in grado di raccontare delle cose molto poetiche e molto toccanti. Nel film c’è un bellissimo momento girato da una ragazza al buio, nella sua camera, che racconta come è stata la sua giornata e cosa si aspetta dal giorno dopo. È un’immagine molto semplice ma, suo modo, straordinaria, una di quelle cose che, quando uno cresce, non ha più il coraggio di fare. Per me è la conferma che i ragazzi hanno davvero bisogno di sperimentare questo linguaggio, è un modo per essere consapevoli delle immagini che ci circondano e di quelle che ci circonderanno in futuro.