Quando non ci si ricorda cos’è un’industria cinematografica, è il caso di guardare un film come Una spia non basta. Da film come questo si capisce cosa vuol dire avere un settore intrattenimento che sforna migliaia di titoli all’anno e si trova un nuovo senso al termine mediocrità. Si sa, più aumenta il numero dei prodotti, più aumenta la convenienza, ma non tutto può uscire rifinito come dovrebbe. Anzi, alcuni pezzi per forza di cose finiscono per essere semplicemente brutti, destinati agli outlet a metà prezzo, con un bollino adesivo a segnalare dove sono fallati.
Ecco, se anche i cinema avessero i loro outlet, la locandina di Una spia non basta sarebbe coperta da un enorme bollo giallo. Perché è uno scarto di produzione, qualcosa da mettere in vetrina giusto quei tre giorni, ma solo perché ormai c’è, tanto vale sfruttarlo.
La storia è il classico intreccio teen dei due giovani che si contendono la bella per una scommessa. Questa situazione viene presa di peso e trasferita nel mondo dell’intelligence: i bellocci, infatti, sono spie, in grado di controllarsi a vicenda con metodi più che sofisticati. Lei, invece, è Reese Whiterspoon, cui probabilmente hanno fatto firmare un contratto che le vietava di fare le sue tipiche faccette. Il personaggio che interpreta è un altro classico: la “casta che sogna d’essere puttana” (tanto per citare) che si sente in colpa ogni tre per due.
Il film è tutto qui: qualche gag spionistica, un po’ di uscite volgarotte, improvvise colate di miele per legare il tutto. Si ride pochissimo, ci si appassiona ancora meno. Per completezza va detto che ci sarebbe anche una sottotrama di spionaggio, ma non è proprio il caso di infierire.