Alla fine della visione di Tre Piani le mie sensazioni oscillavano tra il fastidio e la dubbiosità. Il fastidio derivava dalla maleducazione del pubblico domenicale, che non ha fatto altro che sbeffeggiare un film problematico, ma non certo da gettare al vento. I dubbi mi portavano a richiedere subito una seconda visione dell’ultima opera di Nanni Moretti. Non avevo capito, dovevo pensare a lungo. Il cambio avvenuto era chiaro, dovuto anche dal fatto che si tratta di un adattamento del romanzo di Eshkol Nevo.
Tre Piani inizia forte, con dei botti. Un incidente, un parto, e uno pseudo fattaccio, un mistero da risolvere. Questi eventi riguardano tutti gli abitanti di una bassa palazzina del quartiere romano di Prati. Questi eventi riguardano una minuscola comunità che vive sentendo le vite degli altri. I muri del condominio sono formali, separano per modo di dire. Basta voltarsi per rendersi conto di quello che sta accadendo sopra o sotto. La palazzina di Prati vede una partecipazione reciproca delle vite, una conoscenza a tratti personale dei vicini di casa.
I fatti iniziali cominciano da subito a rimodellare l’atmosfera, rendendola cupa e sospirante, grazie all’apporto della splendida colonna sonora di Franco Piersanti – fatta di strumenti a fiato e poco altro – e a una messa in scena quasi crudele nella sua semplicità. La quotidianità del vivere va scontrandosi con l’orrore della morte, della solitudine e della sfiducia. Questi tre elementi iniziano a lavorare dentro di noi, ancora illusi di essere davanti a una storia qualunque. Per la prima mezz’ora abbondante si rimane del tutto sospesi in un’inquietudine quasi orrorifica.
Tutto ciò però dopo un’ora è svanito, annacquato, perchè la semplicità si è trasformata in semplificazione. Sono passati cinque anni – ne passeranno altri cinque prima della parte finale – e sugli abitanti del condominio regnano ancora i fantasmi del passato, mentre quelli del presente non hanno un grande mordente narrativo. Solo “la vedova” interpretata da Alba Rohrwacher vede acuirsi i suoi problemi, le visioni che ha cominciato ad avere a seguito della nascita della prima figlia. Tre Piani ha due grandi problemi. Prima di tutto lo stile narrativo iper frammentato non aiuta in nessun modo lo svolgersi della vicenda, soprattutto nei momenti meno tesi, da metà in poi. Le scene sempre più brevi, alcune situazioni non approfondite, spiegate più che mostrate. Non sappiamo nulla sui dettagli della crisi della famiglia di Vittorio Bardi (Nanni Moretti). Il figlio Andrea non fa altro che accennare a una repressione subita, ma non si schioda da questa nenia, nemmeno quando la madre Dora (Margherita Buy) lo va a trovare in campagna dove si è fatto una nuova vita. L’incidente della prima scena è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, ma del resto non si sa nulla, nemmeno per allusioni.
L’altro grande problema sono gli attori. E non siamo tornati al discorso su Margherita Buy che sussurra o su Scamarcio che fa solo il belloccio. Le facce erano giuste, le voci pure, e ovviamente non sarebbe stato logico aspettarsi da un film di Nanni delle interpretazioni da actor studio. Ma tra l’asciuttezza e l’impalamento c’è differenza. Quello che mancava a tutti era il rispetto del principio di azione e reazione. In un film che più che mai parla di esseri umani in crisi è quasi inaccettabile vedere dei pali che non fanno nulla davanti alla macchina da presa. I momenti precedenti la brutta scena di sesso tra Scamarcio e Denise Tantucci, lo svenimento di Margherita Buy in strada durante l’inspiegabile attacco al centro migranti, il lieve colpo di tosse di Paolo Graziosi a seguito del tentato strangolamento, durante il suo ricovero in ospedale. Queste sono tre delle – ahimé – troppe scene non credibili, intrise quasi di dilettantismo, che affossano un film che è comunque difficile disprezzare, ma che avrebbe senz’altro avuto bisogno di un’ora in più, per sviluppare tutti i piani temporali in cui si snoda, e per dar tempo agli interpreti – molto numerosi – di imprimersi meglio nelle immagini.
L’operazione di Nanni Moretti era rischiosa e molto complessa: fare per la prima volta un adattamento e, soprattutto, adattare un romanzo costituito da tre piani raccontati singolarmente. Il suo lavoro con Federica Pontremoli e Valia Santella è stato intrecciare le storie, facendole scorrere insieme. Non è stata intaccata la credibilità delle vicende, ma il peso dato ai dettagli. Basta aprire la terza parte del romanzo di Nevo per capire come mai la vicenda del giudice nella pellicola diventa interessante solo alla fine: tutta la storia è narrata da Dora alla segreteria telefonica. E guarda caso solo in quei momenti il piano superiore si accordava alle tinte cupe degli altri due. Abbandonate le ciance inutili di padre e figlio, spetta alla madre raccontare tutto, allo spirito telefonico di un defunto.
Speriamo che Tre Piani sia un transito nella carriera incredibile di uno dei più grandi registi della storia del cinema. Capiremo in futuro per quale motivo perdonare a Nanni questo passo falso. O perché si trattava di una prova per una nuova – interessantissima – fase della sua carriera; oppure perché era semplicemente un esperimento, un tentativo di provare una formula espressiva mai messa in atto. Quello che è certo è che un cineasta della sua portata ha deciso di sottrarsi dal proprio cinema. Dopo aver ucciso Apicella ha ucciso la parte di sé che continuava a brontolare sullo schermo. L’ha fatta picchiare e poi morire. Per un artista come Nanni Moretti non può essere un caso. Aspettiamo di capire, ma nel frattempo torniamo a vedere questo film dal fascino sconfinando, mangiandoci le mani per quanto bello sarebbe potuto essere.