La vittoria di Titane all’ultima edizione del festival di Cannes è forse la notizia più importante e insperata del corrente anno cinematografico. I motivi sono molteplici. Prima di tutto stiamo assistendo a un cambio di paradigma nel mondo della settima arte, perché è certo che cinque anni fa un film del genere non avrebbe portato a casa nessun premio, e forse non sarebbe nemmeno stato in concorso. Perché la regista è una donna, perché tratta di amore, sesso e identità di genere in un modo così consapevole e intelligentemente spaventoso da spostare lo spostabile nell’emotività di un pubblico.
Titane è un horror, ma è prima di tutto un’aggressione allo spettatore. Non è scontato che si riesca a tenere gli occhi sullo schermo senza interruzione durante le quasi due ore di durata, non è scontato accettare quello che Julia Ducournau ha deciso di raccontarci nel suo mezzo capolavoro. A partire dalla primissima scena amore e terrore sono le due componenti principali di tutte le inquadrature, e soprattutto di tutti i movimenti di Alexia (Agathe Rousselle).
L’incidente che le ha lasciato una placca metallica in testa l’ha cambiata radicalmente in due direzioni. Quello che cerca di fare è ritrovare la comunanza con l’essere umano, senza soccombere sempre all’impulso di fare a pezzi la persona con cui un attimo prima stava godendo di piacere. Ema di Larrain scopava per fare terra bruciata intorno a sé, per mettere fine alla parola relazione e intossicare i rapporti umani. E infatti era incendiaria per davvero. Alexia è divorata da due fuochi di passione, ma solo con le macchine trova un contatto profondissimo, un amore, una gravidanza. Paradossalmente, nel suo essere spietata, ama la relazione, cerca di mettere fine a una repulsione che potrebbe costarle cara.
Ed è durante una gestazione che le fa secernere grasso nero che la sua identità di genere fluttua anche visivamente, per necessità di non essere più riconoscibile, a seguito di un massacro compiuto sulle note di Nessuno Mi Può Giudicare. Inizia la fuga vera e propria, e Alexia si lascia alle spalle un passato che forse non valeva nemmeno la pena di ricordare. Si cambia da sola i connotati, diventando a tratti simile ad Achille Lauro, costretta dentro fasce strettissime che le neutralizzano la forma dei seni e della pancia.
Fino a che avviene l’incontro con Vincent – un grandissimo Vincent Lindon, intenso e sofferente -, e con la sua squadra di pompieri. Un mondo di maschi fieri, disposti a recitare quotidianamente con la maschera della forza. Qui avviene il secondo snodo che rende Titane un film gigantesco, come giganti sono i bisogni che muovono i personaggi messi in scena, bisogni che divorano senza pietà per la loro spropositatezza. Vincent ha perso suo figlio Adrien svariati anni fa, e l’incontro con Alexia avviene perché la fuggitiva – consapevole di non reggere una fuga – si presenta in commissariato dicendo di essere Adrien in persona.
Non importa la mancanza di somiglianza con le foto dell’epoca a cui è stato applicato l’invecchiamento digitale, non importa la scontrosità quasi innaturale che pervade il figlio ritrovato, che non si mostra mai nudo al padre, non importa la diffidenza. Vincent è tornato ad avere qualcuno, e questo basta per dargli gioia e sollievo. Ha accanto a sé di nuovo un essere umano, e illudendosi di sapere chi sia la sua solitudine è lenita. Ma non è lenito il suo desiderio di superarsi fisicamente, di avere un corpo perfettamente muscoloso nonostante l’età. Si pratica tutti i giorni iniezioni, si allena di notte nel garage provando e fallendo una serie di trazioni.
Vincent è il desiderio di essere macchina con soli sforzi umani, e non sa di avere in casa chi con la macchina si è fuso, ma solo grazie all’amore. Se ne rende conto solo nella scena finale, straziante e liberatoria, ormai conscio del fatto che Alexia non è Adrien, e disposto forse solo per questo ad amarla come figlia sua.
A differenza dell’impronta cerebrale di Jennifer Kent, l’horror di Julia Ducournau è agito più che pensato. Titane procede per istinto, seguendo soltanto le pulsioni che comportano la metamorfosi della protagonista, nel suo triplice viaggio, di fuga, di consapevolezza di genere, e di simbiosi col corpo che le sta crescendo dentro. Quando l’azione prevale sulla parola l’umanità emerge dirompente senza lasciare via di scampo. Si rischia di soffrire parecchio se si sta al gioco di questo racconto, se si segue per davvero Alexia nel suo peregrinare. Ogni stretta del ventre gonfio è accompagnata da un rumore sinistro delle bende, ogni parola che pronuncia – sono pochissime – potrebbe essere sbagliata, ma ogni gesto, sconsiderato il più delle volte, rischia di essere condivisibile. Un cortocircuito, una provocazione a noi mentaloni che viviamo racchiusi nei pensieri.
Guardare Titane significa testimoniare la consacrazione di una grande regista – e sceneggiatrice -, che gode nel creare immagini fortemente significative, con l’apporto fondamentale di Ruben Impens. La sua fotografia si avvale prevalentemente di luci naturali, generate a più riprese da fonti non usuali per illuminare scene, e il risultato è spesso eccelso nel suo virtuosismo: l’accendino nel letto di Vincent, i fanali della Cadillac prima del rapporto sessuale, o la luce al neon che illumina la festa della squadra dei pompieri, dove Alexia si esibisce in una splendida danza in cima a una camionetta. Notevoli anche i giochi di specchi di cui è spesso protagonista Vincent Lindon.
Una menzione speciale va fatta però ad Agathe Rousselle, 33 anni, al primo ruolo in un lungometraggio. Ha dato volto e corpo ad un personaggio che ci auguriamo possa dettare un nuovo corso del cinema. Un personaggio le cui traiettorie provengono dagli occhi, che guardano sempre da sotto in su e che illuminano ogni sua azione. Dalle pupille di Alexia scaturisce l’incendio che lei stessa appicca a casa dei suoi genitori, da lì emana la furia omicida che le fa afferrare il bastoncino per legare i capelli, arma letale in più di un’occasione. Forse sta nascendo una stella, forse ne sono nate due, pazze furiose direbbe qualcuno. O forse solo geniali.