Usare il dolore, starci dentro senza sfuggivi per affrontare il senso di colpa e arrivare alla redenzione. Aspettandola, e illudendosi di poter fare qualosa per ottenerla. L’arte di Paul Schrader – maestro indiscusso del cinema mondiale – ha sempre parlato questo linguaggio, calvinista, intriso di cupezza e spigoli spesso difficili da digerire con quel gelo che brucia sulla pelle. Il primo film arrivato in Italia da Venezia78 è proprio The Card Counter, nuova fatica del regista e sceneggiatore americano.
Quando si sente descrivere un film con l’aggettivo “lento” viene voglia di insultare o dare una testata a colui che con una sola parola ha già detto troppo. E non perché la lentezza non possa essere una caratteristica di una pellicola, ma perché viene sempre etichettata come un qualcosa di negativo, senza una giustificazione, e va costantemente a braccetto con la locuzione “un po’”. “Bello il film, anche se un po’ lento”, perdo la brocca. E The Card Counter è quel tipo di opera che potrebbe suscitare questo tipo di commento, da chi, ingordo di eventi e di successioni di novità narrative esposte in modo didascalico, non ha la concentrazione – e non sono richieste nemmeno due ore – o il buon gusto di sedersi per pucciare le terga nei freschi inferi della coscienza di Schrader.
Oscar Isaacs è un uomo che gioca a poker tutto il giorno. Conta le carte per non pensare ai misfatti compiuti come carceriere presso la prigione irachena di Abu Grahib, dove i soldati statunitensi praticavano torture ai detenuti. William Tell – così si fa chiamare l’uomo, come l’eroe nazionale svizzero – ha scontato anni di galera per queste tremende violazioni dei diritti umani, e ora cerca un modo per liberarsi da quei pensieri che costantemente lo assillano. Gioca, vince, ma non troppo, per non farsi notare e non destare sospetti. A un comizio di John Gordo – suo superiore ai tempi delle torture – incontra Cirk, figlio di un suo ex collega morto suicida. Il ragazzo è pieno di debiti a causa del padre, per questo Tell decide di iscriversi a un torneo di poker, sotto la guida dell’impresaria La Linda: per garantire un futuro a Cirk, ma anche a se stesso.
Al tavolo da gioco non siedono semplice persone ma esseri che incarnano macro categorie della società americana, ancora una volta assoluta protagonista del cinema di Schrader. Società che prova sempre ad affogare in altro le sue storture voltando la testa dall’altra parte. Ma il senso di colpa del regista non lascia scampo. In First Reformed Ethan Hawke sentiva il coro giovanile della sua chiesa cantare “Are you washed by the blood of the lamb“, e il lavaggio nel sangue serviva a espiare i crimini contro l’ambiente deturpato. In The Card Counter l’espiazione non è nemmeno ricercata con azioni. In pieno spirito calvinista la si aspetta occupandosi di altro. Scrutando i propri avversari con le fiches in mano. I ragazzotti ossessionati dalla patria che urlano il coro “U-S-A! U-S-A!” sono una spina nel fianco per William Tell, sia per la loro abilità nel gioco, sia perché degli Stati Uniti d’America lui forse non ne vuole più sapere granché.
Lo stile del maestro Schrader, non unitario nelle atmosfere dei suoi film, ha assunto nel tempo sempre più distacco emotivo nei confronti dei personaggi rappresentati. Nella strada più o meno lunga che dagli albori della New Hollywood conduce al 2021 ne abbiamo assorbito l’austerità elegante (quell’elemento che farebbe dire ai nostri amici che i film sono lenti) e abbiamo imparato a digerirla, leggendo tra le righe di uno sceneggiatore secco e geniale, scrutando tra i carrelli di un regista che ha sempre creato corridoi con la macchina da presa. I percorsi nei suoi film sono dei tentativi verso l’avanti, che rischiano di trovare la strada sbarrata a fine percorso. Era successo nel 2017, dove il reverendo Toller era vittima nel finale di una scena assurda e quasi ridicola. Non succede oggi, dove viene ritrovata sobrietà nelle scene conclusive, dopo che il percorso di William Tell e Cirk si infiamma degradandosi.
The Card Counter è un fiammifero spento sulla pelle. Il gelo di cui sopra è trasmesso dal calore eccessivo della materia trattata, contesa tra due fulcri attorali. Da una parte gli occhi di Oscar Isaacs – ai suoi massimi storici – cercano di fare da lampioni, illuminando leggermente i dintorni; dall’altra le smorfie di Willem Dafoe – presente in tre scene di numero – danno fuoco al senno di Cirk. I corridoi stilistici si trovano ostacolati da grandangoli che sbalzano la nostra attenzione, che possono sembrare forzature all’interno della drammaturgia fotografica, ma he sono inevitabilmente coerenti con il modo di fare dell’ultimo Schrader, sempre chino su sé stesso, sempre all’inserimento di elementi personalissimi, con la consapevolezza che la produzione potrebbe agire in un ridimensionamento. Paul Schrader ha 76 anni, è aspro e rigoroso, ma vive per il cinema. Senza troppo discutere, nonostante una strana emarginazione subita da gran parte del mondo di cui fa parte – ma la gente giusta continua a girargli intorno, si veda Martin Scorsese, che gli deve la sua fortuna -, continua a produrre, “pisciando un po’ in testa” (passatemi il francesismo) a chi si riempie la bocca con le parole “vecchio” e “ingessato”, e che non si accorge che l’arte cinematografica passa soprattutto da chi sa scrivere e dirigere gli attori, da chi sa struggersi in questo modo per la sua arte.