TV e Cinema
di Mattia Nesto 10 Febbraio 2025

The Brutalist: si può fare architettura dopo Buchenwald?

The Brutalist di Brady Corbet  risponde di sì, che è l’unica meta possibile di quel viaggio.

Al termine della visione di The Brutalist è stato naturale per me ripensare alla frase di Adorono sull’impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz. Già perché nella tormentata parabola esistenziale e artistica di László Tóth, ebreo ungherese salvatosi dal lager di Buchenwald e andato in America in cerca di un nuovo inizio, ho rintracciato proprio quella capitale domanda filosofica. Nel monumentale film di Brady Corbet, che già si candida ad essere uno dei film migliori dell’anno e a fare una grande, anzi grandissima figura agli Oscar, si ritrova proprio quel rovello filosofico-artistico di cui sopra. Tóth, interpretato da un eccezionale Adrien Brody (che per avere un accento magiaro più accurato e verosimile è stato “assistito” dall’intelligenza artificiale durante le parti in ungherese), è un uomo scarnificato da un dolore e da un orrore universale che ha patito nel lager ma non per questo vuole rinunciare alla sua arte, anzi, pare essere l’unica cosa a cui si può aggrappare. Nonostante la vita in America sia dura, da emigrato-emarginato della società e malgrado un grande artista come lui (i suoi lavori brutalisti erano apparsi sulle riviste d’arte di tutta Europa e del mondo) si ritrovi a spalare carbone, egli va avanti, non rinnega nulla di quanto fatto, vissuto o “creduto” in passato. Quando poi, tramite suo cugino Attila, si ritrova con un nuovo impiego e la possibilità di fare fruttare i suoi studi, si imbarca nel rifacimento di una biblioteca-studio di un facoltoso industriale americano, che diventerà un incontro fondamentale-fatale per la sua vita.

Senza dire una parola e chiudendosi sempre più a riccio in se stesso, Làslzlo comincia ad inserirsi nella fiorente società statunitense anche se, lui lo sa e anche lo spettatore con lui, si comprende come non “sarà mai uguale” a loro: rimarrà sempre un qualcuno di esotico, una persona ora da compatire ora da allontanare, un ebreo ungherese che non vuole convertirsi al cristianesimo, che ragiona con la sua testa e che, a causa della indole artistica e melanconica, non si sa mai cosa pensi. In questo affresco si aggiungeranno altre figure importanti nella sua vita ma rimarrà sempre centrale l’arte, anzi ancora più nello specifico l’inseguimento di un progetto che potrebbe rappresentare tutto per lui. Eppure, lungi dai classici film “sulle vite degli artisti”, vere o inventati, The Brutalist non inneggia all’arte “come unica salvezza del mondo”, anzi ci mostra, con una regia sontuosa e titanica (al netto del, in fondo, poco budget stanziato per questo film) che proprio quell’animo e quell’indole così sensibile e artistica è ancora più disarmata di fronte agli orrori della vita.

László Tóth, anche a causa di una dipendenze da quella che potrebbe essere morfina o eroina, rimane un emarginato della società anche dopo tantissimo tempo, un uomo che non riesce a comunicare il suo dolore se non attraverso la sua arte che deve avere “la bellezza solenne e impassibile delle montagne o dei ghiacciai”, da qui il Brutalismo, da qui un certo modo di pensare lo spazio e, soprattutto, la luce nei suoi edifici. Anche grazie a delle interpretazioni sontuose ed ad una colonna sonora meravigliosa, questo film è uno dei film dell’anno (se non il film dell’anno). Nonostante la durata monstre di tre ore e quaranta minuti ne vale la pena mettersi in viaggio. Quindi, per rispondere alla domanda del titolo, sì, forse è l’unica cosa che si può fare.

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