Quando ho finito di vedere Sulla mia pelle, il film sugli ultimi sette giorni di Stefano Cucchi uscito nelle sale e su Netflix, sono rimasto letteralmente senza parole. Mi sono asciugato gli occhi e sono uscito in strada, senza neanche sapere cosa fare, con la sola necessità di non stare fermo. Il film di Alessio Cremonini interpretato da Alessandro Borghi non è la solita fiction edulcorata con mille censure tipo quelle della Rai, né un documentario di approfondimento di una vicenda giudiziaria, ma un lavoro di fino per raccontare una storia non ancora chiusa e arrivare alla verità.
La storia è quella tristemente famosa dell’arresto di Stefano Cucchi e della sua morte in carcere pochi giorni dopo, del pestaggio violentissimo subito mentre era ancora in manette dai carabinieri in borghese, della connivenza dei colleghi e degli operatori sanitari che hanno visitato Cucchi, dell’impossibilità per la famiglia di poter stare accanto al figlio morente o semplicemente di chiamare l’avvocato. Tutte azioni volte ad insabbiare la verità e far passare la morte di Cucchi come naturale, accidentale.
Una storia tristemente simile a quella di Federico Aldrovandi o Riccardo Rasman, un’escalation di violenza incontenibile ai danni della vittima, scaturita da un arresto per reati minori. Il film romanza ma non troppo e quando credi che le violenze su Stefano te le voglia risparmiare per pietà, in realtà le rende ancora più potenti. I calci, i pugni, le botte al ragazzo inerme, quelle che lo hanno ucciso procurandogli ematomi, frattura della mascella, emorragia alla vescica e due fratture alla colonna vertebrale, sono sostituite dal vuoto. Stefano viene fatto entrare a forza in una stanza insieme a due carabinieri in borghese e uno in divisa, mentre la telecamera rimane fuori, quasi a rispettare il dolore del ragazzo e a non dare materiale morboso in pasto alla possibilità di emulazione.
Tutto quello che accade dopo è un calvario di rabbia, dolore e rassegnazione. La battuta sulla caduta (Sò strane queste scale), i dialoghi scambiati col vicino di cella, alla cui assenza affida gli ultimi pensieri, la sensazione fisica della della morte. Tutte le scene di questo film sono pugni che prendiamo per risvegliarci dal torpore della comodità. È una manna dal cielo che questo film sia disponibile su Netflix, la piattaforma in streaming più famosa e usata, quella in cui abbiamo visto centinaia di contenuti anche scarsi che prendono valore solo grazie al brand. Il film è necessario per rendersi conto che all’ingiustizia non ci si deve mai abituare.
Non è un atto di accusa contro tutte le forze dell’ordine, tutti i giudici e tutta la sanità, sarebbe stupido pensare di vivere in uno Stato in cui tutto è marcio e corrotto. Proprio per valorizzare l’operato di chi fa il proprio mestiere con passione e con senso della giustizia, è necessario punire i colpevoli e niente come un film di fiction riesce a scuotere le coscienze, nel 2018.
Stefano Cucchi sarebbe potuto essere mio amico, mio parente, sarei potuto essere io. Il nostro attuale Ministro dell’Interno vuole depenalizzare il reato di tortura che a dir suo legherebbe le mani alle forze dell’ordine e non farebbe lavorare sereni Polizia e Carabinieri. Come si può tornare a casa sereni dopo aver pestato a sangue un qualsiasi poveraccio in manette, questo però il Ministro dell’Interno non lo dice. Come si può baciare la moglie e giocare coi figli dopo aver ammazzato di botte un ragazzo che ha avuto la sfortuna di passare di lì con una canna in mano, questo non lo spiega. Lo spiega invece, come sempre Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano che dal giorno del suo arresto si batte per la verità.