Tutto, in Stranger Things c’è semplicemente tutto. Non è un’esagerazione, perché Stranger Things è uno dei primi casi in cui una serie tv sembra tagliata su misura sui millennial, sul loro immaginario e sulla loro ossessione per l’infanzia. È la nuova serie tv di Netflix, rilasciata in tutto il mondo il 15 luglio scorso e accolta con entusiasmi rari, riconducibili a un unico fattore di fondo.
Stranger Things funziona perché poggia sul sentimento che da circa un decennio va per la maggiore in quelli che un tempo erano giovani e ora sono adulti: la nostalgia. Chi è nato nei primi anni ‘80, appartiene a una generazione che ha iniziato a essere nostalgica prima ancora di invecchiare: con la comparsa dei primi siti blog, è iniziata anche la corsa a un amarcord tutto basato su cartoni animati e relative sigle -un business che sta garantendo una serena mezza età a Cristina D’Avena, ma anche sui film di formazione degli anni ‘80. Dove per film di formazione si intendono pellicole nazionalpopolari entrate a pieno diritto nella storia del cinema, da Ritorno al Futuro a E.T., passando per I Goonies, ma anche per Ghostbusters, Stand By Me e Gremlins. Film ormai considerabili classici e icone del cinema hollywoodiano di quegli anni, esattamente come i film di Billy Wilder segnarono il proprio tempo un paio di decenni prima.
Quelli citati sono tutti film usciti a distanza di pochi anni, tra il 1982 e il 1986 e hanno formato l’immaginario cinematografico della generazione ipernostalgica citata in precedenza, quella che si è ritrovata improvvisamente in una seconda infanzia pochi minuti dopo aver schiacciato play sulla prima puntata di Stranger Things. Bastano quattro ragazzini sulle bmx per tornare a quei film e a quei mondi e se a questo aggiungete un livello di tenerezza assoluto dato dagli autori ai protagonisti, il gioco è presto fatto e lo spettatore è catturato in un istante. A quel punto, la storia è quasi irrilevante: esperimenti strani del governo, uno dei ragazzini sparisce, compare dal nulla una ragazzina dai capelli rasati, tutti cercano di capire cosa è successo al desaparecido.
La bravura dei fratelli Ross e Matt Duffer, 32enni gemelli creatori della serie, è stata quella di prendere questo punto di partenza – già affascinante di suo – e di aggiungere tutta una sfilza di elementi in grado di potenziare l’effetto bolla sugli spettatori loro coetanei. In primis Winona Ryder come co-protagonista, ovvero un’attrice che negli anni ’90 sarebbe diventata uno dei sogni erotici principali di quella generazione. Ryder ci sposta verso gli anni ‘90, ovvero il periodo in cui tra i titoli più importanti troviamo X Files, altro riferimento fondamentale per Stranger Things. Dieci anni di espressione cinematografica e televisiva pop al suo massimo, condensati in una sola serie tv, con l’apertura a una maggiore presenza di elementi horror, perché nel frattempo il pubblico è cresciuto e cambiato e può sopportare un po’ di paura in più.
Tutto questo rende Stranger Things semplicemente contemporanea, perché riesce a intercettare il mondo di un’intera generazione, portando a compimento quanto J.J. Abrams -uno sempre un passo avanti- aveva provato a fare con Super8 e, più recentemente, quanto tentato con Piccoli Brividi, tentativo di proporre un film stile Goonies ai ragazzini di oggi.
Può sembrare strano che una serie così retrò e citazionista possa essere considerata un esempio perfetto di produzione contemporanea, ma di fatto questa è la cifra del nostro tempo: una retromania che si mischia al nerdismo e quindi all’elogio di loser e sfigati. Un equilibrio perfetto tra le parti, che poteva essere realizzato solo da autori che fossero a loro volta cresciuti in quel mondo. Dei trentenni insomma, proprio come i fratelli Duffer. In Italia sarebbe possibile qualcosa del genere? In televisione per ora probabilmente no, al cinema qualcosa sta cambiando e Lo chiamavano Jeeg Robot è lì a dimostrare che si-può-fare.
https://www.youtube.com/watch?v=XWxyRG_tckY