“Sto pensando di finirla qui”: la protagonista del film di Charlie Kaufman che trovate su Netflix, ripete spesso questa frase mentre viaggia in macchina col fidanzato Jake per andare a conoscere i genitori di lui. Fuori nevica incessantemente, ma sembra un road trip come tanti, finché lei non ci guarda, sfondando la quarta parete e mettendoci in allerta. Questo non è un film normale, non lo sarà per le sue due ore e passa di durata. Metterà i brividi, più di un horror e più di una volta sentirete il cervello scoppiare nella cassa cranica.
Andiamo con ordine: I’m thinking of ending things, questo il titolo originale, è l’adattamento del romanzo omonimo di Iain Reid fatto da Charlie Kaufman, uno che di film assurdi se ne intende: sceneggiatore di Essere John Malkovich, Il ladro di orchidee e Se mi lasci ti cancello (Eternal Sunshine of the Spotless Mind), regista di Synecdoche, New York e Anomalisa. Se avete visto uno dei suoi film, sapete già che non c’è da stare tranquilli sul divano a seguire una narrazione lineare, e quest’ultimo film non fa eccezione.
Jake e Lucy (o Louisa? o qualche altro nome?) sono fidanzati, legati da una forte attrazione intellettuale oltre che fisica. Quando raggiungono casa dei genitori di lui, però, succedono cose grottesche, che fatichiamo a capire. E che ci fanno quelle sequenze apparentemente sconnesse con la trama, di un anziano bidello di un liceo?
In giro per i siti di critica cinematografica troverete la spiegazione per il mistero (per niente) buffo di questo film affascinante, dal canto nostro possiamo dire che è una visione delicata e grottesca, per una storia in cui nessuno è chi sembra (in pieno stile David Lynch). Gli attori sono tutti fenomenali, a partire da Jessie Buckley (Chernobyl) e Jesse Plemons (Breaking Bad, Fargo), una coppia piuttosto inusuale e spesso raggelante, ma del tutto normale se paragonata a quella dei genitori di lui, composta da David Thewils (Fargo, Harry Potter) e, soprattutto, Toni Collette, l’attrice più inquietante di questa generazione, già ammirata (e temuta) in Hereditary.
Il cinema di Kaufman non è per tutti, e non lo diciamo con intenzione snob, tipo “ah, solo gli eletti lo capiscono”. No, letteralmente non fa per quelli che non amano i thriller psicologici portati all’estremo, i film destrutturati, stramboidi e intellettuali, perché potrebbero addormentarsi durante il primo tempo, o piegarsi in due dalle risate involontarie. La struttura volutamente paradossale, o ti prende dal primo minuto, o la rigetti in toto e torni al menu principale.
Che sia un film stravagante lo si capisce anche dal formato con cui è girato, il vecchio 4:3 dei film degli anni ’80 e ’90, quello quasi quadrato per riempire le tv al catodo. Una scelta per niente casuale, ma abbiamo deciso di non spoilerare e lasciamo tutto sospeso. Dunque, per quelli di voi che ancora sono indecisi: se volete fare un percorso emotivo/esistenzialista più duro di una seduta dallo psichiatra e volete perdervi nell’assurdo per trovare indizi che concorrano a risolvere l’enigma, buttatevi coi panni e tutto dentro questo film, tra l’altro uscito in streaming invece che nelle sale (purtroppo da un lato, per fortuna dall’altro). Se invece cercate un altro tipo di emozioni, una trama non troppo intricata e non avete voglia di ansie, lasciate proprio perdere. Noi l’abbiamo amato e ora vogliamo leggere anche il libro.
Sto pensando di finirla qui – Iain Reid
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