TV e Cinema
di Marco Villa 5 Marzo 2012

Posti in piedi in paradiso, quello di Carlo Verdone è un cinema di vecchi [recensione]

Posti in piedi in paradiso è un film vecchio e di vecchi, scritto con una mentalità chiusa e senza nessuna capacità di cogliere ciò che non riguarda direttamente la generazione di chi il film l’ha scritto e realizzato.

Posti in piedi in paradiso è un film amaro. L’obiettivo di Verdone, lontano come non mai dai personaggi macchietta, è raccontare le storie di tre uomini separati e in difficili rapporti con le famiglie che hanno lasciato, stemperandole qua e là con scene comiche e battute in puro stile Verdone.

Non è certo il suo film più divertente, né il suo più riuscito, ma risulterebbe comunque un lavoro medio, come tanti nella carriera di Verdone. Se non fosse per un solo particolare: Posti in piedi in paradiso è un film vecchio e di vecchi, scritto con una mentalità chiusa e senza nessuna capacità di cogliere ciò che non riguarda direttamente la generazione di chi il film l’ha scritto e realizzato.

Si tratta di tante piccole situazioni disseminate lungo il film, a cominciare dalla fissazione del protagonista per il rock anni ’70 (un classico di Verdone, qui caricato con il disprezzo per ciò che è venuto dopo), fino al momento della vera e propria esplosione, che coincide con la lettera di dimissioni scritta dal personaggio di Pierfrancesco Favino, che si ribella a un mondo in cui – cito a memoria – “le emozioni vengono aggiornate come il programma di un computer”. Una frase che, oltre a suonare sintetica e del tutto artefatta, fissa l’età di chi l’ha scritta con più precisione del Carbonio 14. Un’incapacità di adattarsi e di capire il presente che – superato il tono da sermone dell’oratorio estivo del 1995 – potrebbe anche essere comprensibile e coerente con la storia dei tre protagonisti, che hanno fatto del fallimento la propria cifra esistenziale.

Purtroppo, però, non è così, perché dal film emerge in modo subdolo, ma inequivocabile la convinzione, comune a buona parte della generazione di Verdone, di essere migliore della generazione che l’ha seguita. Un concetto che non viene mai detto in modo esplicito, testimoniando così come sia parte integrante di una mentalità. Un concetto, però, che emerge chiaramente nel momento in cui si considera che tutte le donne del film scelgono uomini molto più grandi di loro, potenzialmente loro padri. E questo nonostante la limpidezza dei loro fallimenti, cui si accennava qualche riga fa. In questo panorama, ben poco lusinghiero per il genere femminile, fa eccezione la figlia del personaggio di Verdone, ovviamente migliore di tutte le altre giovani ragazze del mondo. Del resto, lo sta rendendo nonno, come potrebbe essere altrimenti?

Qualche settimana fa, su Repubblica, Ilvo Diamanti scriveva che l’accanimento di parte della politica e dell’opinione pubblica nei confronti dei giovani (i famosi bamboccioni) è in realtà figlia di un profondo senso di colpa da parte della generazione dei padri nei confronti dei figli. Con la sua cancellazione quasi totale della generazione di mezzo tra i 17 e i 60 anni, questo film ne è la perfetta e – imbarazzante – conferma.

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