Se non abitassi di fronte ad un cinema, forse non me ne sarei mai accorto. Avrei semplicemente pensato che la tale commedia è andata talmente bene da meritarsi una programmazione annuale. Invece, curioso, mi affaccio alla finestra tutte le volte che vengono cambiati i poster dei film e non posso non notare con una certa perplessità che i film cambiano tutte le settimane, mentre il poster rimane pressappoco lo stesso.
Le caratteristiche sono quelle: sfondo bianco, faccioni degli attori in posa, il titolo del film scritto di solito in rosso con un font fuori moda. Il titolo, poi, spesso è preso da una canzone (Confusi e felici, Nessuno mi può giudicare, Io che amo solo te, Viva l’Italia, C’è chi dice no e via discorrendo) ma questo è un altro argomento.
La scarsa varietà a livello grafico porta inesorabilmente a un appiattimento della proposta e anche quando i film potrebbero essere gradevoli, si scambiano con altri che per definizione non lo sono, facendo risultare il tutto un cinepanettone.
Dalle classiche commedie generazionali di Moccia o Brizzi ai film di Verdone, che si confondono con quelli di Pieraccioni oppure di Fabio De Luigi e Claudio Bisio. Tutti adottano le stesse soluzioni grafiche ed è chiaro che poi ci sia una certa crisi al botteghino: il pubblico è convinto di averlo già visto, quel film.
Lo sa bene Checco Zalone, che di solito per le sue commedie sceglie poster che abbiano un colore diverso in background, oppure un diverso colore del font, evitando il rosso. Non a caso, poi al botteghino vince tutto.
Per saperne di più su questo dubbio legittimo, abbiamo chiesto il parere illustre di Federico Mauro, uno dei migliori multimedia designer e art director per il cinema italiano. Sua è la campagna di comunicazione per Lo chiamavano Jeeg Robot, che ha avuto un successo strepitoso, ma anche il poster del film dei Pills e un sacco di altri lavori che trovate nel suo sito.
Tu che lavori nel ramo, cosa puoi dirci a proposito della grafica per i poster cinematografici italiani?
Al di là della dimensione italiana, nei manifesti cinematografici spesso troviamo degli schemi di composizione ricorrenti. Non sempre questo è da considerare un limite creativo. A volte richiamarsi ad uno schema consolidato aiuta anche a codificare meglio il manifesto, lo colloca in una precisa modalità di rappresentazione, a volte manifesta anche una affiliazione, una prossimità con un titolo più conosciuto o in linea con il film che si sta lanciando. Questo accade da sempre. Il punto, per quanto mi riguarda, è il ‘come’ si realizzano. E soprattutto ragionare, ogni tanto, della necessità di inserire qualcosa di diverso in questi schemi. È così che una produzione creativa cresce e si sviluppa, secondo me.
Ma perché nella gran parte dei film italiani che escono al cinema, il background del poster è bianco con gli attori in posa in primo piano?
È vero, spesso lo ‘sfondo’ è bianco… ma lo era di più qualche anno fa. Era una cosa che non capivo anche io. Ma non tanto il fondo bianco in quanto tale (anche in America lo usano spessissimo) quanto piuttosto era una certa piattezza nelle immagini, i faccioni con le stesse espressioni, o la necessità di inserire 10 personaggi nel manifesto usando foto che non si armonizzavano in alcun modo… Io mi sono trovato a lavorare su alcune commedie, anche molto commerciali, ma in quei casi devo dire che abbiamo sempre fatto scelte diverse. Con consapevolezza. Penso ai film di Albanese ma soprattutto ad un film come Smetto Quando Voglio. Ecco, penso ad esempio che SQV ha contribuito a “sporcare” lo sfondo dei manifesti, a rilanciare il “giallo” sul bianco e lo sfondo ‘sporco’, graffiato (di derivazione oiù di ‘genere’), che oggi troviamo molto spesso anche su manifesti italiani… Poi sai… se un film incassa bene ed ha degli elementi che funzionano allora è più facile che possa definire un modello a sé.
Perché il titolo nella maggior parte dei casi dev’essere scritto con un font imbarazzante, meglio se rosso o bicolore?
Sul lettering dei titoli non saprei dirti. A volte, come immaginerai, il nostro è un lavoro che richiede molte mediazioni ed interventi e comunque ci sono sempre le direttive di distribuzione e produzione da seguire. Poi ci sono realtà con cui lavori che ti lasciano più libero, che si fidano e si affidano di più ed altre meno. Ma è una questione di “sistema” più che delle sole agenzie grafiche che ci lavorano. Secondo me un approccio virtuoso sta nel mezzo di questa dinamica: seguire le direttive, rispettare il film ma anche contribuire con la propria visione e capacità a realizzarle al meglio.
Ci sono stati dei film ai quali hai lavorato, la cui immagine doveva sottostare alle regole che abbiamo descritto?
Io ho dovuto mediare spesso, ma mediare non sempre è subire. A volte è capitato anche che questo abbia migliorato i miei lavori, li abbia resi più belli. Quindi non sempre un contributo o un indirizzo è volto a peggiorare un lavoro.
Quali sono i poster a cui hai lavorato che vanno in totale controtendenza rispetto allo standard?
Guarda io penso di aver fatto un lavoro interessante con i manifesti di Diaz, Reality e Smetto Quando Voglio. Questi lavori sono la cosa più vicina al risultato che avevo in mente. Se sono belli o brutti, dimmelo tu!