Pecore in Erba è la storia della vita e della scomparsa del celebre attivista politico Leonardo Zuliani. Se non sapete chi sia, tranquilli: non siete fuori dal mondo, semplicemente Leonardo Zuliani non è mai esistito. Per fortuna, perché è una persona orrenda, un campione dell’antisemitismo in Italia e nel mondo, il ragazzo che riesce a riportare d’attualità l’odio per gli ebrei. A farlo tornare mainstream, anzi, dopo che per anni è stato un fenomeno di nicchia, deprecato da una società buonista. Anche perché, come si dice nel film: “L’antisemita è una persona che ama odiare, quindi impedirglielo è un po’ come impedirgli di amare”.
No, tranquilli: non siamo impazziti, vi stiamo semplicemente raccontando l’orizzonte assurdo lungo il quale si muove l’opera prima di Alberto Caviglia, presentata in concorso nella sezione Orizzonti della 72esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e in sala dal primo ottobre per Good Films.
Pecore in Erba è un mockumentary, ovvero un finto documentario, costruito come un lunghissimo speciale di SkyTg24, in cui viene ricostruita la vita di Zuliani: il film è costruito per accumulo di sketch e situazioni, intervallati dagli interventi di intellettuali e opinionisti. Si tratta di nomi che vanno da Ferruccio De Bortoli a Vittorio Sgarbi, passando per Carlo Freccero, Enrico Mentana e Corrado Augias, tutti impegnati in una grande difesa del diritto ad odiare gli ebrei e contro la dilagante moda dell’antisemifobia, ovvero l’avversione nei confronti dell’antisemitismo. Loro sono perfetti, nella parte di se stessi, ma tutto il cast è all’altezza, a cominciare dal protagonista Davide Giordano, che di fatto recita come in un film muto, senza mai pronunciare una battuta.
Il film è tutto così, un continuo ribaltamento del logico e del senso comune, in grado di far perdere i punti di riferimento e di fare ridere. Pure tanto. Accolto a Venezia da grandissimi applausi (e da qualche mugugno degli oltranzisti dell’estetica a tutti i costi), Pecore in Erba è la dimostrazione di ciò che dovrebbe sempre essere un’opera prima: un film con un’idea e un linguaggio propri, in grado di bilanciare gli inevitabili limiti che derivano dall’inesperienza e che in questo caso si manifestano soprattutto in una scrittura che a tratti diventa ripetitiva.
Per capire meglio come è nato il film, abbiamo fatto qualche domanda al regista Alberto Caviglia.
Pecore in Erba è il tuo primo film: partire con una parodia dell’antisemitismo non è da tutti.
Lavoro da quasi dieci anni come assistente alla regia e da tempo avevo il desiderio di fare un film come regista. Non avrei mai pensato a un film sull’antisemitismo, anche se, da ebreo, è un tema che mio malgrado mi ha sempre toccato. Con il passare del tempo però ho pensato sempre più a come avrei potuto affrontarlo, ma mi veniva sempre in mente un approccio canonico, che non avrebbe aggiunto nulla a quanto già raccontato. Il film nasce da un’illuminazione: perché non rovesciare tutto? Perché non pensare un antisemita che diventa eroe in una società folle e ribaltata, in cui l’antisemitismo viene considerato una caratteristica innata dell’individuo? Di colpo ho realizzato che spostare questo tema sul piano della satira e del paradosso era una cosa mai fatta da nessuno. Perché è un tema delicatissimo e spinoso, suscita polemiche, ma per me è anche l’unico modo per affrontarlo in modo radicale, per superare i tabù e i soliti discorsi in cui si incarta.
Sono già arrivate le prime reazioni negative?
Per ora no, anzi, l’ho visto apprezzare da destra, da sinistra e anche da ragazzi molto giovani. Non l’avrei mai pensato, avevo paura che potesse essere troppo complicato o a rischio-fraintendimento. Il pubblico risponde bene e capendo alla perfezione il film. Mi sono reso conto che avevo sottovalutato il pubblico.
La lista di intellettuali che hai coinvolto nel film è lunghissima e sentire opinionisti di ogni tipo dire cose agghiaccianti e con un livello altissimo di antisemitismo è senz’altro uno degli aspetti più riusciti del film. Come hai fatto a convincerli che non avrebbero buttato al vento autorevolezza e anni e anni di carriera?
Con ognuno di loro è andata in modo diverso: chi chiedeva per filo e per segno di spiegargli tutto e chi accettava dopo aver sentito “antisemitismo e satira”. Li abbiamo chiamati mentre stavamo girando, quindi quella parte si concretizzava strada facendo. Una cosa molto ansiogena.
Nel film ci sono diversi livelli di comicità: si passa da giochi di parole non immediati come il concetto di “antisemifobia” ad altre molto dirette. In che modo hai lavorato per mantenere entrambi i registri?
È vero, ci sono tanti livelli, ma è perché io amo diversi registri comici. In fase di sceneggiatura mi sono reso conto di queste differenze e ho provato a livellare il tutto, smussando i registri più alti e stando attento a non averne troppi di quelli bassi. Volevo che arrivasse a tutti, ma con fluidità e coerenza.
Hai già in mente qualche altro progetto?
Sì, in realtà avevo scritto un altro film prima di girare Pecore in Erba. Non avrei mai immaginato di fare un film comico, non sapevo di volerlo fare, né di essere in grado di farlo, ma con le opere prime in Italia bisogna sempre giocare sull’idea. Devono sempre essere film da fare in pochissimo tempo, con pochissimi soldi e senza curare molto l’estetica. Grazie a Pecore in Erba spero di riuscire a girare l’altro film e di poterlo fare con un certo agio.