La Pazza Gioia di Paolo Virzì è uno di quei film che trasmette una sensazione di libertà incredibile. Un controsenso se si pensa che le donne raccontate sono tutto tranne che libere. Certo, è vero che la storia è proprio quella di una fuga momentanea per darsi – forse un’ultima volta – alla “pazza gioia”. Questo film ha tutto, e tutti dovrebbero andarlo a vedere, semplicemente perché ognuno di noi è un po’ matto, perché nella follia c’è comicità, fragilità e vulnerabilità.
C’è una sceneggiatura che racchiude tutta la poetica ironia di Paolo Virzì, originale e con battute coinvolgenti. Paolo Virzì dirige e scrive (insieme a Francesca Archibugi) due personaggi meravigliosi, rinchiusi in una comunità terapeutica per donne con problemi mentali, interpretati da due attrici senza pudore che si regalano totalmente alle protagoniste Beatrice e Donatella. Valeria Bruni Tedeschi è la contessa Beatrice Morandini Valdirana, che nella sua instabilità dice frasi che regolarmente potreste dire anche voi, quelli più matti, e io mi ci metto dentro. È una chiacchierona istrionica e in grande intimità coi potenti della Terra: da Clinton a Berlusconi. Sul suo smartphone scorrendo la rubrica appaiono nomi come “Giorgio Armani Casa” e “George Clooney”.
Perché si trovi in comunità non possiamo di certo dirvelo, vi basti pensare che desidererete avere anche solo per un giorno la sua schiettezza e la sua disarmante ingenuità cinica. Micaela Ramazzotti invece è tutto il contrario. La sua Donatella ha i tatuaggi, è magrissima, ha i capelli sporchi e una diffidenza causata dal grande dolore per il segreto che porta dentro. Sono meravigliose, sono energia pura, eppure son matte. Il film è stato già richiesto in oltre 40 paesi e dopo aver commosso Cannes pare stia commuovendo anche tutti quanti noi. Non pensiate di cavarvela giovani cinici e disillusi, piangerete anche voi. Abbiamo parlato a lungo con Paolo Virzì di follia, ironia e anche di quando aveva i capelli lunghi, era un anarchico e sognava un mondo migliore.
Che cosa hai scoperto che non sapevi della follia?
Tante cose. Non se ne sa mai abbastanza, anche se è un tema esplorato dalla letteratura e dal teatro, se penso a Tennessee Williams, Pirandello, però allo stesso tempo se ne ha anche paura, perché è una questione che spaventa. Ci spaventa perché ci riguarda, ognuno di noi ha un “io matto”. Però sai, chi fa questo mestiere, quello del commediante, sa che veste i panni del fool, di quello che dirà la verità, la cosa sconveniente, quella che farà irritare i potenti mettendosi il cappellino buffo. Tanto poi sappiamo che saremo sepolti in terra sconsacrata. Pensavo però che ci fossero risposte pubbliche migliori al problema del disagio psichico. Dal momento che ci vantiamo di essere il paese con una legislazione sul tema avanzatissima, siamo noi che nel 1978 abbiamo ufficialmente abolito i manicomi con la Legge Basaglia. Eppure i manicomi esistono ancora. Anzi questo tipo di disimpegno dello Stato nelle strutture di cura ha procurato addirittura un effetto quasi negativo.
In che senso?
Nel senso che non sono state create altre strutture alternative, non sono state create occasioni. C’era un film norvegese che mostrava come due persone con malattie mentali importanti venissero messe dai servizi sociali dentro un appartamento anche in convivenza per aiutarli a cavarsela da soli. Da noi non esiste questo tipo di programma, esistono solo luoghi che portano le persone ritenute malate lontano dai nostri occhi, siano gli OPG, ora vietati, o luoghi dove si fa musicoterapia, pet terapia o altro, però sempre lontano dal proprio sguardo. C’è l’eccezione virtuosa di Trieste che per l’appunto è una città dove c’è una cultura scientifica, psichiatrica più avanzata, dove le pazienti sono messe in un proprio appartamento magari in condivisione con altre. Se c’è una possibile terapia credo sia proprio quella della condivisione, non so se c’è una possibile guarigione, non si può guarire dall’imperfezione, fa parte della natura umana. Sì, credo che un’accettazione o un’attenuazione del dolore sia possibile con la condivisione.
Cosa significa raccontare una storia che sia divertente, senza però esagerare?
Sai cosa? Credo che il segreto sia quello di sentirmi un po’ come loro. Non migliore, non un gradino sopra Beatrice e Donatella, ho la sola fortuna di fare un mestiere pazzo e posso permettermi di non essere un invalido. Ci sono altri che hanno meno privilegi e fortuna di me, che tutti i giorni fanno un lavoro che odiano e che magari un giorno gli può scoppiare il cuore o la testa e diventano incapaci di dominare un’angoscia. L’angoscia è un sentimento col quale convivo e che provo a sfruttare e quindi mi sono permesso di fare questa cosa che può essere anche un po’ scandalosa: di sorridere del dolore e della pena di due donne sole, escluse, ferite, emarginate perché mi sono sentito simile a loro.
La follia è anche comicità.
È vero, i matti fanno un po’ paura ma fanno anche ridere. È anche un’esigenza umana, il carnevale nasce per soddisfare il bisogno di sentirsi un po’ matti. Solo l’ipocrisia può negare questa cosa. Se mi guardo intorno, specie se guardo il palcoscenico del potere, della politica, vedo tanti casi clinici di patologie… gente che si crede Napoleone e parla a nome di tutti o che alimenta le angosce del Paese e dei cittadini per convenienze di potere. La vedo dappertutto la follia e quella pericolosa non sta nelle cliniche psichiatriche, sta altrove.
In alcuni punti del film la macchina da presa si muove per ricreare il senso dell’astinenza dai farmaci delle due protagoniste, del sudore, del desiderio e appunto dell’angoscia. Mi incuriosiva sapere cosa hai fatto in quel senso.
È il senso del nostro mestiere. Siamo artigiani che cuciono una storia e in questo caso il segreto artigianale era cercare di restituire questo sentimento di calore e sudore, anche da farmaci, e di inquietudine dello sguardo. Ad un certo punto le due protagoniste cominciano a essere in deficit dei farmaci dei quali sono dipendenti loro malgrado, e quindi la macchina a mano era usata in modo molto emotivo per cercare di seguire questo batticuore, questa euforia e questa loro angoscia.
Valeria e Micaela sono, fortunatamente, due attrici senza pudore. Hanno regalato se stesse completamente ai nostri personaggi.
Si, sono potentissime. Giravamo con tre macchine, una operata da me medesimo, malamente. Le riprese più incerte, più mosse sono le mie. Perché sapevamo che non dovevamo mai perderci nulla di quelle due, potevano sorprenderci. Valeria l’avevamo gasata, caricata, le abbiamo detto “Vai scatenati, esagera” se mai ti dico io di fare meno. E Micaela nel fare Donatella era stata istruita nell’andar dietro a Beatrice con un misto di batticuore e di fiducia, ma anche ogni tanto a inalberarsi perché è una ragazza di strada lei e lo sa che certe cose non si possono fare, mentre l’altra ha l’alterigia dell’alto lignaggio come Don Quixote. Ecco si, una ha la saggezza popolare di Sancho Panza e l’altra la follia visionaria del Don Quixote. Noi eravamo sempre pronti a catturare anche i momenti inaspettati che sono avvenuti. La torcetta che ha in mano Donatella in una scena me la sono ritrovata abbassando l’inquadratura, ho girato e poi ho chiesto a Micaela: “ma che avevi in mano?” e lei che in quel momento era Donatella: “la torcetta per proteggermi dagli incubi”.
Di certo sei una persona che ascolta, prima ancora di essere un regista. Saper raccontare questioni spinose come quella de Il Capitale Umano o storie “normali” come quella di Tutti i santi giorni non è da tutti e saper far sorridere, anzi ridere, narrando situazioni delicate è veramente per pochi. Sì, era un complimento più che una domanda.
Mi interessa da morire ficcare il naso nella vita degli altri. È anche una maniera di capire se stessi, voglio dire anche questo è egocentrismo. Lo sono tantissimo e la mia è anche una forma di vanità. Stacco lo sguardo da me stesso rivolgendolo al mondo fuori. Mi domando anche come fanno gli altri, penso che sia il sale di questo mestiere, di chi racconta. Anche chi fa auto fiction e si maschera dietro un io narrante, poi alla fine compie un girovagare nelle cose della vita. Per lo meno per quelli bravi da cui mi piace copiare. Poi ci sono quelli che mi piace meno emulare. Se guardo a chi sa raccontare sono sempre quelli che vanno a interessarsi e a osservare gli altri e a raccontare il mondo. Ed è la cosa che diverte di più. Pensa che palle altrimenti stare sempre davanti allo specchio.
E se invece dovessi dare un consiglio al Paolo Virzì del 1994 de La bella vita?
Era bello che fossi cosi ingenuo e anche maldestro come regista, nel senso che non sapevo nulla delle riprese. Ero uno che aveva scritto dei copioni e che a un certo punto si era ritrovato sul set senza sapere niente. Avevo esperienze da fotografo di matrimoni, sapevo i nomi delle lenti: il 28, il 14… però grossomodo, non è che avessi confidenza con la fabbrica del cinema. Va bene che sia andata cosi insomma. Mi si riaffaccia ogni tanto il ragazzo che sono stato, quando avevo i capelli lunghi e mi consideravo un anarchico che sognava un mondo migliore. Adesso per me il massimo della prospettiva è quella di sperare di limitare i danni. Si, magari mi si riaffaccia quell’adolescente a dirmi: “Sei diventato stronzo”. E io che cosa gli posso dire? Gli posso chiedere solo scusa.