C’è una nuova serie tv su Netflix, un crime a metà tra il thriller e la biografia. Si chiama Mindhunter e vi farà esplorare la mente deviata dei serial killer americani degli anni ’70. L’ideatore è Joe Penhall, lo sceneggiatore inglese famoso per il film La strada, mentre l’apporto visivo è reso splendidamente dalle inquadrature chirurgiche, stilisticamente perfette che sono un po’ il marchio di fabbrica di David Fincher, regista tra gli altri di Seven, Fight Club, The Social Network e L’amore bugiardo – Gone Girl. Il regista statunitense ha anche prodotto Mindhunter (con Charlize Theron), e ha diretto anche 3 episodi, settandone lo stile.
L’argomento è uno dei più sfruttati dalle produzioni americane: FBI e serial killer, da un regista che ha il pallino per gli assassini seriali, basti pensare alla trama di Seven o a Zodiac, il film biografico sul killer dello zodiaco che seminò morti nei tardi anni ’60 e non venne mai arrestato.
Con un pedigree così, è il regista perfetto per raccontare la storia del primo agente speciale dell’FBI che si trova a studiare una nuova tipologia di assassino nel 1977, creando la stessa definizione “serial killer” che anni dopo sarà sulla bocca di tutti. Storia che è stata adattata dal libro Mind Hunter: Inside FBI’s Elite Serial Crime Unit, di Mark Olshaker e John E. Douglas, quest’ultimo un vero ex agente FBI, uno dei primi esperti di profiling criminale degli assassini seriali.
La trama in due parole: Holden Ford è un negoziatore al quale viene l’idea di intervistare i criminali più feroci per capirne i processi mentali e utilizzare queste nozioni per prevenire altri crimini. Assieme a Bill Tench, il collega più anziano e la dottoressa Wendy Carr, convincerà non senza fatica i piani alti dell’FBI ad acconsentire a intervistare assassini seriali (veramente esistiti) come Ed Kemper o Jerry Brudos.
Mindhunter ha una marcia in più, non si perde nelle strategie tipiche della serialità, seminando cliffhanger a fine puntata oppure lasciando troppe cose in sospeso nei momenti cruciali, ma va dritto per dritto come se fosse un lungo film. Gli attori sono tutti perfettamente a fuoco: Jonathan Groff interpreta la curiosità. l’ingenuità e la (non troppo) candida perversione di Holden Ford rimanendo adeso a un protagonista pacato e spesso cupo, con la scintilla negli occhi. Holt McCallany è perfetto come Bill Tench, il collega anziano scorbutico e diffidente, abituato alla vecchia scuola ma con un occhio di riguardo per le nuove tecniche, così come Anna Torv e Hannah Gross, rispettivamente la dottoressa che aiuta i due detective e la fidanzata psicologa di Holden.
Inutile dirlo, ma i momenti più appassionanti sono quelli che riguardano le interviste ai veri serial killer della storia americana nei tardi anni ’70, uno su tutti il gigantesco e pacato Ed Kemper, la cui particolarità era quella di decapitare le sue vittime e fare sesso con la testa mozzata. Cameron Britton, l’attore che lo interpreta, restituisce tutta l’intelligenza deviata e la fisicità di un mostro con la mentalità folle ma in qualche modo, lucidissima.
Il quid di Mindhunter è proprio la violenza che si respira in ogni secondo delle 10 puntate, senza che venga mai sfogata o esposta, se non nelle foto degli omicidi. Un lento discendere negli abissi della mente criminale, che sembra fin troppo vicina a quella di chi criminale non lo è, che avvalora la tesi che nessuno nasce assassino, le circostanze fanno germinare il crimine e la perversione tra chi è predisposto. Qui il tocco di Fincher è tangibile e la tensione toglie il fiato, compressa in alcuni faccia a faccia compiaciuti che non vedevamo da Il silenzio degli innocenti.
Holden Ford rischierà di perdersi nel labirinto, e noi con lui. Aspettando frementi la seconda stagione, su Netflix.
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