Il primo film giunto a noi da Cannes 74 non arriva dal concorso ufficiale, ma dalla sezione collaterale Première, e soprattutto da un regista che in questa edizione del festival ha ricevuto il premio alla carriera. Marco Bellocchio è un gigante del nostro cinema, e del cinema mondiale, ricordarlo è superfluo. Arrivato a non so quale fase della sua carriera, ha fatto qualcosa di totalmente inaspettato. Qualcosa di pericoloso certo, e sincero nella sua spaventosa crudezza. Marco Bellocchio è andato a fondo in un suo trauma, forse il più recondito e massiccio. Il suicidio del fratello Camillo, avvenuto il 27 dicembre del 1968.
Marx può aspettare comincia con la ripresa di un pranzo di famiglia. Ci sonno i fratelli Bellocchio, Letizia, Piergiorgio, Maria Luisa, Alberto – e Marco – con i rispettivi coniugi e figli. Tutti riuniti per una seduta di quello che potrebbe sembrare un torturante ricordo. In tutta la durata del film si alternano davanti alla cinepresa coloro che allora c’erano, per ricostruire il ricostruibile sulla tragedia che li colpì più di cinquant’anni fa. La domanda dunque sorge spontanea: che cosa può esserci di interessante in cento minuti filati in cui un gruppo di ottantenni rimugina sul proprio passato? L’interesse davanti a tutto questo scaturisce non soltanto grazie alla mano di Bellocchio. Abituato negli anni a imprimere con estrema forza l’impronta sulle proprie opere, facendo sentire la propria autorialità invadente, il regista piacentino ha avuto il solo grande merito di pensare a questo progetto. Per il resto ci hanno pensato gli “intervistati”, interpellati quasi con distacco, come se il loro interlocutore non fosse un parente. Tornati su una ferita che in qualche modo hanno avuto il tempo di ricucire, oggi hanno trovato uno spazio interiore per l’analisi.
Non c’è nessuna risposta che riesce a trapelare da tutto questo parlare. Letizia ancora crede che si sia trattato di un incidente, troppo legata al ricordo dell'”angelo” suo fratello per accettare la sua impiccagione, mentre Maria Luisa rimane ancorata al proprio sorriso-smorfia, tirando fuori un sassolino alla volta, ricordi minuscoli. L’unica sentenza che viene pronunciata, in modo diverso da diversi di loro, con parole o allusioni, è quella che riguarda l’aridità emotiva che attanagliava la famiglia, da sempre. Causa l’assenza di un padre e l’ossessione religiosa della madre. Troppo concentrati a salvare il mondo Marco e Piergiorgio non capivano il dolore che avevano dentro casa. Non capivano che la rivoluzione e Marx potevano aspettare.
Nei primi due terzi questa aridità non sembra essersene però andata. Forse è solamente una questione di volti. Ognuno dei fratelli Bellocchio sembra essere ritagliato fuori da una maschera, parla a suon di espressioni facciali che saremmo normalmente abituati a vedere sul volto di un attore caricaturale, ma che fanno invece parte del loro comunicare quotidiano. Inizialmente fanno storcere il naso le espressioni di Alberto, fino a quando non ci rendiamo conto che quelle he vediamo sono le sue normali posture facciali. La confusione riguarda la lucida freddezza che trapela da ognuno di loro. La tensione dei racconti è prima di tutto rivolta al sé. Dov’ero quando Camillo si è ammazzato? Cosa ho fatto non appena l’ho visto? Cosa ho fatto per aiutare a tirarlo giù al soffitto? Solo nel finale escono allo scoperto alcuni sensi di colpa, ancora una volta senza la minima nota melodrammatica. Ed è qui che scatta qualcosa che da strano diventa estremamente commovente.
La famiglia Bellocchio ha continuato a vivere con linearità la propria vita, e soprattutto a ricordarsi dei propri fatti in quel modo, apparentemente crudele per quanto nitido. Non si nasconde dietro strani perbenismi, dal momento che tutti sono convinti e consapevoli che ad acuire la depressione di Camillo era stata una implicita competizione coi fratelli, tutti troppo intelligenti e bravi in quello che facevano. Tutti conoscevano questa verità, non proprio bella da raccontare. Ma in fin dei conti quale potrebbe essere un modo più corretto di ricordare una persona che non si ha avuto la capacità di capire ed ascoltare? Questo linguaggio cinematografico, assolutamente non assolutorio, travagliato interiormente, ma che non romanza per gli altri, perché di spettacolarizzazioni del dolore personale ne siamo colmi.
Marx può aspettare trasuda di stranezza non solo dentro al cinema di Bellocchio, ma in tutto il cinema che passa sui nostri schermi. Una stranezza pulita data dalla fotografia da spot pubblicitario d’alta classe, un meccanismo per chiarire subito che non c’è intrattenimento per nessuno. Forse nessuno avrebbe fatto un film del genere, pensando al poco interesse per l’argomento, banalmente per i fatti propri. E invece la preziosità di questa ora e mezza abbondante si spiega da sola, durante il suo svolgimento, e rimarrebbe tale anche senza i riferimenti a I Pugni in Tasca o L’ora di religione; anche senza le parole del prete che da anni fa da confessore a un regista ateo a sua insaputa, attraverso le sue rappresentazioni della fede. Se Marx poteva aspettare, così non poteva fare il lucido dolore di una famiglia.