In un futuro non ben specificato un padre e un figlio vivono la loro vita su una palafitta in una laguna. Tutto il circondario è una landa desolata, umida, inospitale e con pochi abitanti, i due portano avanti la propria esistenza sperando ogni giorno di riuscire a procacciarsi del cibo. In caso contrario possono chiedere aiuto ad Aringo, l’abitante che gode del prestigio della zona, e soprattutto della maggior ricchezza. Attraverso semplici azioni di baratto ottengono qualche pesce, e la sicurezza di sopravvivere ancora un po’ senza morire di fame.
Ma dopo la morte del padre il giovane protagonista decide di mettersi in viaggio con la sua piccola barca. Nonostante gli sia stato intimato di non farlo, supera le chiuse – colonne d’Ercole della terra che abita – per andare in cerca di qualcuno che sappia leggere. Porta con sé il quaderno in cui il padre ha scritto la verità della sua esistenza, probabilmente sul perché lui non sia stato ucciso da bambino, come ormai accade a tutti. Fuori dalle zone conosciute fa due incontri. Dapprima si imbatte nella terra coltivata da due fratelli scorbutici, che tengono in gabbia una donna trattandola come una bestia da torturare. Fuggito dai bruti con la ragazza, insieme giungono al secondo approdo, un’enorme centrale energetica dove un gruppo di uomini vive, in un crogiolo di odio e fame, aspettando la fine della della civiltà (e facendo prigionieri). Grazie a colui che nel gruppo funge da boia, esecutore materiale delle morti, il Figlio riesce finalmente a sentire le parole impresse nelle pagine, prima di andarsene un’ultima volta, lasciandosi alle spalle le fiamme.
Liberamente tratto dall’omonima graphic novel di Gipi, La terra dei figli è un film difficile da affrontare per vari motivi. Innanzi tutto ci mette di fronte a uno scenario terrificante, ma credibilissimo. Il delta del Po, zona dal potenziale evocativo sempre splendido, diventa una terra di nessuno, o meglio, una terra di pochi e crudeli. Il Figlio si aggira per le acque, da solo o col Padre, immerso nella costante insicurezza. Qualcuno potrebbe sbucare da un canneto, fare un agguato. Il realismo spiazzante dell’ambientazione fa venire dei dubbi sulla possibilità che uno scenario del genere si realizzi, almeno parzialmente.
Il tema dell’eredità è quello che sembra gravare maggiormente sulla narrazione. Tutto quello che è stato lasciato dalle generazioni passate – che poi saremmo noi – è un sentimento diffuso di paura, quasi irrisolvibile, e sfiducia in ogni essere umano che si incontra. In tutta la prima parte del film, Claudio Cupellini riesce a fondere perfettamente la cupezza dei personaggi nel fango annacquato su cui camminano o navigano. Le azioni, tornate all’essenzialità dell’adempimento di funzioni primarie, sono svolte quasi con foga dai muscoli che non sono più abituati alla cosiddetta cura per il gesto. Basti pensare al modo disperato con cui il Figlio mangia la zuppa che gli offre prima della partenza la Strega cieca – interpretata da una gelida Valeria Golino – vecchia amica del padre morto.
Sulla carta anche il cast sarebbe difficile da comprendere. Gli interpreti vengono da mondi diversi – musica, cinema e teatro – ma riescono a dar vita ad una strana amalgama attoriale. Leon de la Valleè, meglio noto come Leon Faun, ha la faccia tosta adatta per essere l’ultimo giovane umano del circondario. Inizialmente apatico e convinto di essere al mondo per errore o per pietà, il suo personaggio cresce di scena in scena, sciogliendo le incertezze, e capendo con chiarezza quello che vuole ottenere. Verso il finale l’obiettivo sembra sfumare, complice anche la cupezza totalizzante che il gruppo di predoni va infondendo allo svolgimento. Il ruolo del boia è affidato a un Valerio Mastandrea chiuso a riccio dietro una sorta di maschera da sub che serve a non far vedere il naso dimezzato. L’attore romano lavora di sottrazione portando la sua gamma espressiva ad abbandonarsi alla rassegnazione di chi sa di aver perso tutto, o quasi. L’altra grande interpretazione è quella di Paolo Pierobon, che mette il suo spessore e la sua chiarezza attoriale al servizio del Padre, ormai abituato con la forza ad essere ruvido.
La terra dei figli parla un linguaggio lineare. Se non viene sentito o capito, la colpa è solo dell’interlocutore, che volta la testa dall’altra parte. Con la freddezza dell’immaginario e un reticolo metaforico semplice ed efficace la pellicola di Cupellini si pone al bivio tra un film post-apocalittico e una forma rinnovata e blasfema di neorealismo. Non manca di difetti ma si occupa dello spettatore per due ore con grande rispetto, nonostante tutto. E in aiuto di una regia intelligente e pulita arrivano le musiche composte da Francesco Motta, perfette nel terrore angoscioso che trasmettono. Proviamo a guardarci intorno prima che sia troppo tardi.