Diciamocelo subito: se sei stato bambino nei 90s, molto probabilmente hai visto Jurassic Park al cinema. Già perché in un’era in cui la tv satellitare o via cavo era ad appannaggio di pochi e Netflix o Infinity non ce li sognavamo neppure, film come Jurassic Park erano veri e propri eventi collettivi, che coinvolgevano in maniera integrale o quasi paesi, quartieri di città e gruppi di amici.
Però il film di Steven Spielberg è uscito nel 1993 e quest’anno compie 25 anni: siamo sicuri che quel senso di magniloquenza, di titanismo e di infantile stupore che provammo un quarto di secolo fa, Jurassic Park ce l’ha ancora o non è stato, come molti film contemporanei ad esso, fagocitato nella categoria “bello come amarcord ma ormai non più presentabile”. Beh, a distanza di 25 anni, Jurassic Park rimane a livello visivo, emotivo e filmico, ancora oggi, una figata pazzesca.
La prima volta che si vede un dinosauro nella sua interezza in Jurassic Park, il film è già iniziato da quasi venti minuti eppure difficilmente lo si scorda: con una musica titanica, il main theme realizzato da quel genio di John Williams, un mastodontico Brachiosauro si erge su due zampe, così da raggiungere le foglie più in alto, per poi ricadere, facendo vibrare il suolo sotto il suo peso di tonnellate e tonnellate di carne, a terra.
Ecco questo è Jurassic Park: tu lo sai oggi come lo sapevi ieri che quell’animale è finto, eppure vederlo di fronte a te, bello e squillante nel sole dei Tropici, senza inutili orpelli o occhiali 3D, ti fa ancora credere che sia realmente in vita, fatto di sangue e ossa proprio come te, solo un poco più grande: quello non è un mostro, ma è una creatura vivente. Magia del cinema.
Il parco è qualcosa che rimane nel cuore. Già perché quella serie di enormi recinti che ospitano tutte le specie più famose e conosciute di dinosauri è qualcosa che oggi come allora colpisce l’immaginario collettivo. Come del resto l’istrionico proprietario, il magnate John Hammond, quello dell’immortale frase “Qui non si bada a spese”: Hammond impersona una specie di Paperon de Paperoni ancora più spregiudicato e capitalista, spendaccione fino al midollo che però rimane, nell’intimo, quel bambino che si stupiva di fronte all’illusione prodotta dal circo delle pulci. Già, ancora una volta, l’illusione.
Ma, come ovvio che sia quando si parla di dinosauri, non ci può essere spazio solo per stupore e ammirazione, necessariamente serve un po’ di strizza per condire il tutto: e di paura, in Jurassic Park, se ne prova molta, specialmente se si pone un po’ di attenzione nell’immedesimarsi con i protagonisti. Spielberg, pur avendo avuto a disposizione praticamente fondi illimitati per i suoi dinosauri (compresi i primi strumenti di computer grafica veramente compiuti con una CGI che tiene botta ancora oggi ), non esagera, non fa lo sborone alla John Hammond.
Ad esempio quando viene il momento del primo attacco del T-Rex uno si aspetta di vedere subito il predatore, di ammirarne in una batter d’occhio tutta la sua immane stazza: e invece no, il racconto di Spielberg, ricalcando Lo Squalo, si concentra sui piccoli dettagli. Dall’aria che cambia, al rumore di rami spezzati sino ai cerchi concentrici che si formano in un bicchiere d’acqua nel momento in cui il T-Rex si avvicina: un pathos che cresce e una paura che si allarga. Anche se si è comodamente seduti sul divano, l’illusione di trovarsi di fronte al più feroce predatore della preistoria rimane intatta.
Ci stiamo dimenticando un dettaglio molto importante. Jurassic Park, come è noto, deriva dall’omonimo romanzo di Michael Crichton che colpì talmente tanto Spielberg da spingerlo ad acquistare i diritti ancora prima della effettiva uscita del libro. E proprio dal libro anche nel film c’è un tema davvero interessante: si può controllare la vita?
Perché se Jurassic Park, film o libro che sia, dà per scontato il fatto che la vita ormai, grazie alla tecnologia, si possa (ri)creare (la clonazione della pecora Dolly sarebbe arrivata di lì a soli quattro anni), ci si domanda se l’uomo, novello dio del tempo presente sia davvero in grado di controllare la vita, prerogativa di un dio “fatto finito”.
Crichton prima, Spielberg poi, per bocca del fondamentale prof. Malcolm rispondono di no, che è impossibile, perché è il caos a regolare tutto: come dargli torto, vedendo quello che sta succedendo oggi nel mondo? Una vera e propria illusione del controllo. E poi diciamocelo: se queste cose le afferma Jeff Goldblum tutto ingiacchettato di nero e vestito di pelle come dargli torto?
A conti fatti quindi, Jurassic Park ancora oggi è un film strepitoso perché unisce a tutti i classici della cinematografia hollywoodiana (“più grosso, più grande, più cattivo”) anche riflessioni intellettuali, seppur presentate in maniera diretta ed elementare, non di poco conto.
Leggerezza e profondità insomma e, esagerando, non siamo troppo distanti dalle Lezioni Americane di Calvino. Perché in fondo se il cinema è una magnifica illusione, con Jurassic Park l’illusione di vivere 65 milioni di anni fa non è mai stata così vivida e feroce. E la scena finale, con tutta la sua carica deliziosamente kitsch e iper-pompata, fa ancora oggi saltare sulla sedia.