Una volta un mio amico mi disse che non riusciva a guardare le olimpiadi perché il confronto coi giovani atleti di mezzo mondo che a venti/venticinque anni erano già dei fenomeni lo faceva vergognare. “Noi stiamo ancora qua a finire l’università e non sappiamo cosa faremo dopo”, esclamò staccando un quadratino da un biglietto dell’autobus. Se pensiamo al mondo del cinema, in cui un regista, uno sceneggiatore o un autore che fa entrambe le cose esordisce in media a trenta/trentacinque anni, è facilissimo capire perché Xavier Dolan, trent’anni, sia ormai da tempo considerato con un briciolo d’invidia un personaggio di culto dai cinefili e dagli “aspiranti cinematografari”. Otto film all’attivo, tanti premi vinti ai Festival di Cannes e Venezia e uno stile unico e riconoscibile che fa impazzire i fan e divide la critica senza troppi danni. Almeno fino alla sua ultima opera, l’attesissimo The Death and Life of John F. Donovan, questo il titolo originale, il primo in lingua inglese con un cast stellare che conta Kit “John Snow” Harington, Natalie Portman, Thandie Newton e i due premi Oscar Kathy Bates e Susan Sarandon.
Canadese francofono, attore fin da bambino, Dolan è letteralmente “il nuovo che avanza” non solo perché giovanissimo ma perché come tanti ragazzi ha immagazzinato tutta la cultura pop possibile degli anni Novanta e Duemila e la riversa senza paura nel suo cinema personalissimo. Ha ammesso di non aver studiato le tecniche di ripresa né i classici imprescindibili ma di ispirarsi più a film generazionali quali Titanic e Jumanji (qui citato per ben due volte). Gay dichiarato, le sue storie sono incentrate su tematiche familiari e sentimentali in cui l’omosessualità desta sempre problemi, i suoi personaggi fanno i conti con la propria identità (non solo sessuale) e lottando contro le circostanze avverse non si arrendono mai. Una pezza, potreste pensare, se non fosse che le sue storie ad alto tasso emotivo si bevono tutte d’un fiato grazie a dialoghi torrenziali, macchina da presa veloce alternata a ralenti efficaci, una messa in scena da fuoriclasse e soprattutto un uso della musica a cui nessuno, in effetti, aveva pensato prima.
https://www.youtube.com/watch?v=PoFM4pWCAg0
Wanderwall in Mommy
Il film, nelle sale dal 27 giugno, inizia effettivamente molto bene, rispettando alla lettera il titolo originale (prima la morte, poi la vita di questo John F. Donovan/Harigton) con un prologo di tutto rispetto che introduce i personaggi: un attore televisivo di successo negli anni Novanta, un bambino che lo idolatra volendo fare il suo stesso mestiere e che riesce ad avere per anni una corrispondenza segreta con lui e lo stesso bambino, vent’anni dopo e quindi oggi, diventato a sua volta attore affermato, che racconta a una giornalista svogliata l’esperienza di tutte quelle lettere. Poi, sui titoli di testa, parte ovviamente dall’inizio alla fine una famosissima canzone di Adele, di cui Dolan è talmente amico da averle girato il video di Hello ci piace e “ci sta bene”, per carità, ma non è un po’ presto per giocarsi una carta del genere?
Subito dopo ci ascoltiamo un lento dell’epoca d’oro dei Blink 182 (già utilizzati dal regista in È solo la fine del mondo) e qui troviamo in nuce il grande problema del film perché, forse, il senso della canzone sancirà il finale. Niente di grave in senso assoluto, se pensiamo che il cinema è pieno di prime parti che contengono gli indizi per intuire il finale, se non fosse che, dopo uno sviluppo interessante e comunque pieno di momenti altissimi e assoli superbi, nell’ultimo atto si prende proprio la strada dello spiegone, mettendo in bocca ai personaggi i loro pensieri più espliciti non solo su ciò che pensano delle persone che hanno intorno, ma anche su come il pubblico dovrebbe intendere il senso ultimo dell’opera.
La critica internazionale, dopo il passaggio al Toronto Film Festival dello scorso settembre, aveva bollato Dolan come bollito perché ormai ripetitivo, ancora ossessionato dall’omosessualità e dal rapporto con la figura materna, fastidiosamente autoreferenziale ed esasperante nei suoi stilemi ma ciò può non essere necessariamente un male dato che tutto questo, stavolta, si esprime attraverso i sogni di un bambino (e quindi le aspirazioni di ognuno di noi) e soprattutto punta dritto alla riflessione sul rapporto con la celebrità e lo star-system di cui ormai Xavier Dolan fa parte. Semmai, vi avvisiamo, La mia vita con John F. Donovan, nonostante di bellissimi momenti ce ne siano e tanti, ribadendo l’anima melò dell’autore (luce espressionista, lacrime e primi piani, musica pop in ogni dove) potrà deludere anche i fan più accaniti perché quando si tirano le somme ci dice cosa pensare e come pensarlo, disinnescando la magia che aveva caratterizzato tutta la precedente filmografia dell’(ex)enfant-prodige canadese. Poco a che vedere, insomma, con J’ai tué ma mère (l’esordio a diciannove anni), Lawrence Anyways o quel capolavoro di Mommy.