Il gioco del destino e della fantasia – Il gioco al dialogo di Ryūsuke Hamaguchi

Il terzo film del regista giapponese è una danza preziosa, intarsiata in dialoghi magistrali, dove le presenze umane fanno i conti con le casualità della vita, e le emozioni che ne derivano inavvertitamente

L’estate sta volgendo al termine, e con lei il tacere delle novità nelle sale cinematografiche. Le prime perle della nuova stagione stanno cominciando a venir fuori, e tra queste spicca con forza l’opera di un regista che nella prima parte del 2021 ha avuto modo di farsi notare. Posto che i premi ai festival abbiano una funzione spesso politica e strategica, posto che rispecchino il gusto soggettivo di una giuria, tuttavia il fatto che Ryūsuke Hamaguchi abbia vinto nello stesso anno l’Orso d’Argento (gran premio della giuria) a Berlino e il Prix du scènario a Cannes non può essere un caso. E ora siam certi che non lo sia. Perché Il gioco del destino e della fantasia, presentato alla 71esima edizione della Berlinale, è un vero gioiello, sotto svariati punti di vista.

Il film è composto da tre episodi, che raccontano tre vicende slegate tra loro, ma con dei comuni denominatori tematici. Nel primo, Magia (o qualcosa di meno rassicurante), la giovane Meiko ascolta col suo fare distaccato ma partecipe il racconto della nuova frequentazione amorosa della sua migliore amica Gumi. Ma quando scopre che la persona in questione è il suo ex fidanzato dentro di lei tutto sembra complicarsi in modo strano. Va a parlare con lui, come se ci fosse qualcosa da risolvere, senza accorgersi che le nuove “complicazioni” derivassero da fattori a lei esterni. Meiko assume sempre più fascino col passare dei minuti, grazie ai suoi dialoghi fittissimi fatti di una grande quantità di frasi, apparentemente slegate e banali. In realtà sono la maglia di una tela complessa e a tratti ermetica. Con la testa ferma, centellinando col contagocce i cambi di direzione dello sguardo, è lei a portare nelle situazioni quella magia da cui è tanto attratta, è lei l’elemento magico che sposta gli equilibri umani delle persone con cui ha a che fare, quasi impercettibilmente. E con questo suo modo d’essere prova ad riarrotolare un pezzo di gomitolo che non le andava a genio, smascherando forse di essere fautrice di tutto quanto.

Un frame del film tratto dall’autore  Un frame del film tratto dall’autore

Nel secondo episodio, La porta spalancatauno studente escogita il modo di vendicarsi di una bocciatura subita dal suo professore, scrittore fresco della vittoria del prestigioso premio Akutagawa. Chiede a una sua compagna di corso con cui ha una relazione fatta principalmente di sesso, nonostante lei sia sposata e abbia un figlio, di procedere con un’azione di seduzione nei confronti del prof Segawa, per farlo licenziare e ricoprire di vergogna pubblica. La ragazza si presenta nell’ufficio del docente per complimentarsi con lui, e si mette a leggergli ad alta voce un brano che descrive i dettagli di un rapporto sessuale. Non succede nulla, l’uomo rimane immobile sulla sua sedia, chiedendo continuamente che la sua porta non venisse chiusa. Il piano di tentazione al peccato fallisce senza speranza, ma diventa un pretesto affinché i due si aprano reciprocamente, in uno scambio dialogico magistrale fatto di rivelazioni di piaceri e traumi di anaffettività. Con un imbarazzo costante, dovuto dall’autoconsapevolezza del proprio status, insegnante e allieva riescono ad appianare le gerarchie di potere che li dividono, giocando sui limiti della disponibilità altrui, in una lectio magistralis sul rispetto del consenso, sempre più strana, spesso dai ripieghi teneri.

Un frame del film tratto dall’autore  Un frame del film tratto dall’autore

Ancora una volta è la terza ed ultima parte del film. Ambientata in un futuro indeterminato in cui un virus informatico ha causato il collasso tecnologico – e la conseguente scomparsa della comunicazione digitale in cui oggi siamo immersi – narra di Moka, una donna che partecipa a una rimpatriata della classe del liceo, da cui va via insoddisfatta, quasi delusa. Il giorno successivo incontra sulle scale mobili del metrò un volto conosciuto, una vecchia conoscenza, proprio colei che era mancata la sera prima. Invitata subito a bere a casa un tè, cerca un modo per affrontare con l’amica un tema spinoso, rimasto in sospeso per tutti questi anni di separazione. Ma è proprio in questo momento che il meccanismo si inceppa, perché Nana, l’amica ritrovata, si accorge di non ricordarsi minimamente di Moka. Non erano a scuola insieme, non si erano mai viste prima. Ma da questo malinteso, tutt’altro che negativo, nasce un gioco di ruolo, in cui ognuna delle due recita per l’altra il ruolo colei per cui era stata scambiata. In questo punto la penna di Hamaguchi  raggiunge il suo apice, per la complessità iper cervellotica con cui le sequenze narrative vanno a susseguirsi, e per la tenerezza dei rapporti davvero profondi tra due perfette sconosciute. Nella totale mancanza di rapporti tecnologici Nana e Moka si trovano per errore e creano un’amicizia dal nulla, fabbricandola artigianalmente con la semplice forza del proprio vissuto, come due bambine innamorate.

Un frame del film tratto dall’autore  Un frame del film tratto dall’autore

Durante la visione de Il gioco del destino e della fantasia siamo anche noi un po’ bambini, incuriositi da una raccolta di storie insolita, nei cui meccanismi vogliamo entrare senza dubbio, anche a costo di fare fatica. E ne vale la pena di sudare, soprattutto all’inizio, per riuscire a godere di tutta l’umanità che si schiude da ogni dialogo. Un’umanità fatta di forme sempre complesse, mostrate per quello che sono. Hamaguchi rispetta con tutto se stesso le figure di cui offre rappresentazione, mette a disposizione uno stile di regia asciutto e rigoroso, fatto di camere fisse e pochissimi movimenti studiati – tra cui spiccano le tre zoomate nei tre punti nodali degli episodi -, e inseriti alla perfezione nella partitura del film. Una danza preziosa con cui veniamo portati in zone che non ci aspettavamo, lasciati alla fine della visione a riflettere di cose troppo più grandi –  e perché no, a tratti anche più belle – di noi.

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