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È (quasi) ufficiale, mancano solo due stagioni alla fine di Girls. Significa poco quasi due anni e una ventina di episodi, ma già ora si può dire che Lena Dunham ha realizzato l’ambizione del suo alter ego, Hannah Horvath: “I think I may be the voice of my generation… at least a voice, of a generation”. Classe 1986, Dunham ha infatti all’attivo un film, Tiny Furniture, distribuito dall’etichetta del cinema d’autore per eccellenza Criterion (il nome di Dunham figura accanto a quelli di Fellini, Kurosawa, Bresson, per dire); un libro, Not That Kind of Girl, per il quale l’editore ha pagato la bellezza di 3.7 milioni di dollari; e una serie tv per HBO, Girls appunto, che non farà gli ascolti di altri prodotti di punta del canale, come Game of Thrones, ma che si è imposta come un piccolo fenomeno di culto.
Se sei una ragazza che non risponde a certi canoni di bellezza, gli unici ruoli che hai a disposizione in tv di solito sono quello di cadavere in Law and Order o al massimo di vicina di casa/amica/compagna di scuola del protagonista di turno, e i privilegi (figlia di due artisti importanti, Dunham è cresciuta nella New York che conta) non bastano a sovvertire certe regole. Ma Lena Dunham ha altre doti: talento, senso dell’umorismo, e soprattutto il coraggio di esporsi nonostante questo significhi, nell’era dei social, ritrovarsi qualche migliaio di commenti che oscillano di solito dall’#escile, se sei Kate Upton o Emily Ratajkowski, agli insulti o alle minacce di morte se non lo sei. Perciò Lena si cuce addosso un personaggio e una serie, Girls, che sono quanto di più onesto – e sgradevole – si sia visto in tv ultimamente: se le fan di Sex and the City si sdilinquivano di fronte a Carrie e alle sue massime pensando “com’è vero” e “come vorrei essere lei”, di fronte a Girls in poche, almeno all’inizio, sentono di potersi identificare con la viziata, presuntuosa e egoriferita Hannah.
E non va meglio con le altre tre protagoniste: Marnie (Allison Williams), insicura cronica, capace di lamentarsi di nulla e forse il personaggio che in assoluto riesce a rendersi più imbarazzante (il suo videoclip raggiunge un livello di disagio che non credevamo possibile); Jessa (Jemima Kirke), che si professa uno “spirito libero”, ma in realtà dipende tanto dalle droghe che dagli uomini che sceglie per compensare l’assenza di una figura paterna e oltretutto è l’amica peggiore di sempre, una di quelle che mentre sei via presenta al tuo fidanzato la tizia per cui ti pianterà; e Shoshanna (Zosia Mamet), che farebbe quasi tenerezza nella sua ingenuità infantile se non fosse anche tremendamente convinta di essere migliore degli altri solo per il suo titolo di studio. Verrebbe quasi da simpatizzare col cast maschile (a Dunham il merito, tra l’altro, di aver lanciato uno dei volti più interessanti oggi, Adam Driver, il Kylo Ren di Star Wars: The Force Awakens), se non fosse che Adam è forse troppo “originale” per essere umanamente sopportabile e Ray (Alex Karpovsky) talmente irascibile che stare con lui è come fidanzarsi col blog di Beppe Grillo.
L’avrete capito: i personaggi di Girls sono piene di difetti, molti dei quali talmente esasperati che il rischio macchietta è dietro l’angolo, ma grazie alla scrittura attenta e calibrata di Dunham nel corso delle sue quattro stagioni hanno acquisito spessore, umanità. Le loro vicende, e le dinamiche relazionali che li legano, sono tutt’altro che semplificate o edulcorate: per quanto viziati, o volubili, i personaggi di Girls sono anche estremamente fragili, e per loro (come per noi), diventare adulti significa soprattutto ammettere di non essere all’altezza dell’immagine che cercano di dare di sé e riconoscere la difficoltà di costruire dei legami che durino oltre la beata incoscienza dei vent’anni. E i tanti momenti difficili e dolorosi che la loro crescita comporta costringono lo spettatore a ridefinire le sue aspettative sul tono della serie – Girls è uno di quei prodotti per i quali è si usa il termine dramedy, proprio perché sfugge a una definizione di genere ben precisa.
Se i protagonisti di Girls prima li odi, ma poi te ne innamori, è proprio perché al netto dei tratti caricaturali costringono il proprio target di riferimento a guardarsi allo specchio e a riconoscere, insieme alle proprie ambizioni e al proprio coraggio, anche la propria superficialità e i propri privilegi. Oltretutto, anche con Girls Dunham fa del proprio corpo la cartina al tornasole del sessismo e della misoginia diffusi: mostrandosi nella sua normalità ed esponendosi alle critiche feroci degli immancabili leoni da tastiera (ma anche di tanti critici e giornalisti…), ha messo a nudo (passatemi il gioco di parole) il diffuso atteggiamento discriminatorio nei confronti del femminile.
L’annuncio della fine “programmata” di Girls non è una brutta notizia: probabilmente la serie si concluderà prima di aver tirato troppo la corda e soprattutto prima che le sue protagoniste diventino delle noiosissime adulte. La stessa Lena Dunham è cresciuta, del resto, e continua la sua conquista dei media: dopo un film, una serie tv e un libro, tocca alla stampa con la newsletter Lenny, versione 2.0 di una testata giornalistica che promette opinioni brillanti su “feminism, style, health, politics, friendship and everything else”. E in questi giorni, Dunham è in prima linea nella campagna elettorale della Clinton: prove generali prima di entrare anche in politica? Nel frattempo ci accontentiamo di aspettare la quinta stagione di Girls, in onda dal 21 febbraio su HBO.