TV e Cinema
di Marco Villa 22 Agosto 2017

Game of Thrones – La settima stagione è la più bella e la più brutta della serie

Questa stagione ha segnato un cambio netto nel tono e nello stile e ha attirato tante critiche

Un solo episodio. Manca un solo episodio e poi la settima stagione di Game of Thrones (in onda in Italia su Sky Atlantic HD) sarà finita. Dopo un’attesa durata oltre un anno, sette episodi sono volati e per l’ottava e ultima stagione bisognerà aspettare parecchio, visto che potrebbe andare in onda per la fine del 2018 o addirittura per l’inizio del 2019.

Parecchio tempo, che senz’altro verrà impiegato dai fan per ipotizzare mille teorie sul finale o per discutere di cosa si è visto in questa settima stagione, quella che ha segnato un cambiamento secco nello stile della serie, al punto da dividere gli appassionati in due schiere ben definite: la settima stagione di Game of Thrones è la più bella o la più brutta? Il problema è che probabilmente è sia la più bella, sia la più brutta. E non è un semplice paradosso per farci un titolo.

Nel corso degli anni, una delle critiche più frequenti a Game of Thrones è stata quella di centellinare l’azione e le svolte narrative, diluendole in stagioni in cui la maggior parte degli episodi faceva avanzare le trame di pochi millimetri alla volta. Una caratteristica che ha definito la serie stessa, evitando di trasformarla in una infinita serie di battaglie. Certo, in ogni stagione non mancavano mai le sequenze spettacolari e difficili da dimenticare, ma si trattava di rari momenti di svolta.

Con la settima stagione, tutto è cambiato: Game of Thrones ha subito un’accelerata considerevole, sia in termini di avvenimenti, sia in termini di tempi di racconto. Uno degli elementi più criticati di questi episodi, per iniziare, è il cambio di approccio ai tempi degli spostamenti: nel corso delle stagioni, il fatto che un personaggio dovesse spostarsi da una città all’altra, implicava il trascorrere di un lungo lasso di tempo. Alcuni dei protagonisti, soprattutto i due fratelli Arya e Brandon Stark, hanno vissuto gran parte della loro storia viaggiando, spostandosi incessantemente in un territorio vastissimo.

Del resto, la geografia del mondo di Game of Thrones è qualcosa di fondamentale, già a partire dalla sigla. In questi episodi, invece, gli spostamenti non sono più un problema, al punto da creare quasi un paradosso spazio-temporale. Non è un problema di realismo o di verosimiglianza, non siamo tra quelli che pretendono aderenza alla realtà in una serie fantasy, ma di coerenza interna: se ci sono personaggi che hanno vagato per intere stagioni oltre la barriera, diventa poco sensato che in una sola notte uno di essi possa raggiungerla da un punto sperduto. E ancora: le missive inviate con i corvi che arrivano più in fretta di un messaggio su Whatsapp.

Tutti segnali di come Game of Thrones ha eliminato ogni tempo morto nel momento in cui si è allontanata dai libri di George Martin. Come ampiamente risaputo, la serie ha da tempo superato la saga dello scrittore, di cui si aspettano i volumi finali: non c’è più, insomma, una pagina scritta a fare da filo conduttore, ma è la serie a dettare ritmi e toni. E ovviamente ritmi e toni sono quelli di una serie tv: dialoghi e rapporti personali meno sfumati e più diretti, avvenimenti che accadono senza grandi attese e senza intervalli particolarmente lunghi. Abbiamo passato intere stagioni in attesa del vagito di un drago, mentre la settima stagione ci ha già offerto due giganteschi esempi della loro potenza.

La compressione degli eventi può essere ovviamente collegata alla riduzione del numero di puntate: come detto, dopo sei stagioni da dieci episodi, si è arrivati a una settima stagione con tre episodi in meno. Questa necessità di andare di corsa, rischia però di avere un effetto collaterale non da poco: tante azioni e tante scelte sembrano avventate, guidate da una assoluta mancanza di logica che si scontra con la ponderazione che aveva caratterizzato i personaggi nelle stagioni passate. Valga su tutte la decisione di Jon Snow di avventurarsi a Nord della Barriera, in cerca di una prova da mostrare a chi non crede all’esistenza dell’esercito dei non-morti che sta marciando verso sud. Una missione potenzialmente suicida ideata e approvata nel tempo di un caffè. A questo si aggiunge poi la presentazione di alcune situazioni cruciali come se fossero scontate, da nulla, come ad esempio il legame tra i non-morti e i loro creatori.

Per concludere, un altro cambio di passo: gli eroi non muoiono più. Nemmeno in una puntata densa di tensione e di momenti drammatici come la sesta, in cui almeno quattro personaggi “storici” hanno rischiato la pelle. Tutti salvi, però, come se di colpo si avesse paura a eliminare i preferiti del pubblico, seguendo un altro tipico ragionamento da serie tv.

In generale, quindi, tutto compresso, tutto schiacciato, tutto spinto in avanti: una stagione diversa in modo radicale da quello a cui Game of Thrones ci aveva abituato. Per questo motivo, difficilmente si può scappare dal dualismo proposto nel titolo: è la più brutta perché si è tradita, è la più bella perché è altamente spettacolare.

E quindi: meglio tempi lunghi e grande attenzione al dettaglio o eventi che si susseguono a mille all’ora e caratterizzazione dei personaggi affidata a dialoghi espliciti? Chissà che l’ultimo episodio della settima stagione non ci possa dare la risposta definitiva.

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