Louis è francese ma vive a Milano. Nonostante il suo grande talento da trombettista jazz – ereditato dal padre – guadagna guidando il taxi di notte acompagnando la trans Lucìa nelle sue azioni di spaccio di droga. In questo modo cerca di contribuire al mantenimento della figlia Anita, anche lei con la passione della musica, suonatrice di pianoforte. La moglie – forse ex, non è molto chiaro – sospetta qualcosa ma non arriva mai a domandare esplicitamente da dove venga quel denaro. La svolta avviene quando Louis decide che deve tornare sulle orme del padre, per superare una volta per tutte il complesso di inferiorità che lo a portato a lasciare la tromba nella custodia. Ma l’abbandono degli affari loschi non sembra essere accettato da Lucìa e dai suoi aguzzini, che iniziano a perdere terreno, rischiando di far finire lo stesso Louis nei guai.
Futura è un film che prova a camminare su un filo molto sottile, ma non riesce mai a stare in equilibrio, andando sempre a finire con due piedi in uno dei due territori che gli stanno accanto. Il primo, quello in cui Lamberto Sanfelice – al suo debutto con un lungometraggio – sembra riuscire a muoversi con più agio e capacità, è quello del racconto dell’emotività attraverso i colori, come nelle notturne ambientate nei club milanesi come il Plastic, cariche di rossi e di blu. Scontato ma a tratti apprezzabile è il richiamo a registi come Refn o Noè, che nella loro carriera hanno reso queste due tonalità quasi ossessivamente caratteristiche del loro stile. Di notte Futura scorre nella giusta direzione, tra il marcato hipsterismo stilistico e la sincera cupezza che accompagnano Louis nei suoi viaggi in taxi, nelle sue serate fuori controllo, nei suoi tentativi di ritrovare il legame perduto col jazz. Ma laddove la notte porta interesse per lo svolgimento della storia, nel momento in cui si prova a conciliarla col giorno, iniziano a palesarsi come buco dopo l’altro i difetti di scenegguatura. Sembra quasi che si stia assistendo a due storie separate ma interpretate dallo stesso attore. Quando manca un collante tra due categorie di personaggi può verificarsi uno scompenso, una confusione poco sostenibile. Ma quando sono le due anime di uno stesso personaggio a non essere rappresentate con coerenza, non c’è giustificazione che tenga.
Sorgono dunque alcune domande più che legittime. Innanzi tutto, la rinascita del Louis musicista – che lo porterà ad accantonare il malaffare e a rischiare di finire nel mirino degli aguzzini di Lucìa – viene seguita con sempre minor interesse, e quindi si arriva al punto in cui ci si chiede se ne valeva davvero la pena. In questo modo il jazz, che dovrebbe essere il grande motore dell’intera pellicola, viene marginalizzato alla bellissima colonna sonora di Di Battista e Rava – saggiamente inseriti anche nel cast – e a qualche momento in cui la band a cui si unisce il protagonista suona dal vivo. Il personaggio dello stesso Di Battista, che durante le prove sembra essere il coordinatore del gruppo di musicisti, svanisce col perdersi del focus sull’elemento musicale. La passione per il jazz e l’urgenza con cui Sanfelice prova a raccontarla è palpabile, semplicemente il giovane regista e lo sceneggiatore Fabio Natale si sono complicati la vita, inserendo troppe sottotrame, tutte poco a fuoco. E non si parla solo del crimine in cui Louis è coinvolto, ma anche dei rapporti con la figlia Anita, che sembrano stratificarsi in modo realistico durante tutto lo svolgimento, fino a quando alla piccola non accade un incidente assurdo totalmente dal nulla, ed è lì che viene da gettare definitivamente la spugna, perché anche questa deriva conclusiva iper drammatica non viene assecondata, e il colpo di scena muore nella sua timidezza. Quello che non riesce a fare la sceneggiatura è offuscare la prova attoriale di Niels Schneider, alle prese con l’italiano, e di Daniela Vega – protagonista nel 2017 del bellissimo Una donna fantastica – che però paga molto la poca consistenza dei dialoghi. Delude invece Matilde Gioli, inespressiva e debole.
Potremmo dire che Futura sia un buco nell’acqua necessario. Necessario al suo autore, che dai tanti errori e contraddizioni di questo esordio può ripartire, consapevole di avere in saccoccia un potenziale visivo che non lascia indifferenti. Un’altra nota di merito va fatta alla scelta di aver fatto espatriare il crimine, da Roma a Milano. La città meneghina viene trattata con meno reverenza della capitale, e mostrata come una ladra di sogni, che ruba l’anima dei personaggi, ma non pretende di essere protagonista invadente. In questo senso sono apprezzabili le ambientazioni al Teatro degli Arcimboldi e allo Spirit de Milan, e anche la scena dentro l’Hangar Bicocca, intrisa di un onirismo inguistificato ma dalla sospensione delicata. Rimane un – ulteriore – dubbio sul significato del titolo. La canzone di Dalla dovrebbe non essere coinvolta, ma almeno su questo concediamoci il beneficio del dubbio.