Non siamo come i nostri genitori. Quelli di una o due generazioni fa erano soliti passare sopra tante cose pur di far quadrare i conti, anche quelli emotivi. Quando ti guardano, ti dicono che andrà tutto bene e ti fanno credere che possa davvero essere così, finché non ti trovi invischiato in una palude troppo scura e troppo densa. Allora scopri di essere solo e tutta la speranza che ti infondevano, potrebbe non servire a molto.
Forse, sarebbe stata meglio la verità. Meglio sapere che non sarà mai facile, medie, superiori, università, lavoro, famiglia, e tutto il resto, così da non farsi troppe illusioni e da godere di quando le cose vanno bene. L’adolescenza spesso è un periodo di merda, è il primo momento in cui le ragazze e i ragazzi sviluppano la coscienza di sé e iniziano a pensarsi persone pensanti, non più appendici dei genitori. Le scuole medie e le superiori possono essere un calvario se si appartiene a una delle categorie perdenti per eccellenza: secchioni, brufolosi, brutti, grassi, portatori di handicap, nerd, poveri, stranieri o semplici antipatici.
Le ragazze, sembrano non avere mai scampo. Non solo le appartenenti alle categorie perdenti, ma anche quelle vincenti per natura possono passare momenti d’inferno, dopotutto a quell’età basta lasciare una persona e mettersi con un’altra per guadagnarsi il titolo ad honorem di troia e portarselo dietro per tutto il corso degli studi, alimentato dai pettegolezzi dei compagni.
Non ci avevo mai pensato più di tanto, non perché non abbia fatto parte delle categorie di loser, ma perché la mia era di quelle degli sfigati bassi di statura che le prendono da quelli più grossi, quindi non mi sono fatto a quell’età troppe domande su quanto dovesse essere dura per una bella ragazza, non facevano proprio parte del mio mondo.
Fino a oggi, quando si parla di bullismo (e se ne parla sempre troppo poco), di solito si tira fuori una delle categorie maestre nell’arte dell’essere magneti per i bulli, le situazioni telefonatissime in cui il gigante picchia il mingherlino con l’apparecchio e gli occhiali. Poche volte si affronta il tema con uno sguardo femminile, sarà per questo che la serie tv Tredici (13 Reasons Why, su Netflix) mi ha toccato nel profondo.
Onestamente, all’inizio mi sembrava il solito teen drama con il suicidio di mezzo e l’espediente thriller delle cassette grazie a cui cui viene svelata la verità. Dopo due o tre puntate stavo per abbandonare la serie, perché ogni volta che si parla di una possibile nuova Twin Peaks e poi non trovo niente del genere mi scazzo subito. Mi sembrava una Dawson’s Creek aggiornata, coi personaggi stereotipati e i due protagonisti, Hannah e Clay, antipatici proprio come Dawson e Joey. Se seguite queste pagine, saprete che da quel punto di vista ho già dato.
Chiamavo Clay Lombroso, bullizzandolo da casa per gli occhi vicini e quella faccetta un po’ così, che non fa granché simpatia e poi perché non prende mai una decisione che sia una. Hannah la suicida invece mi sembrava il prototipo di tipa che quando non ci sono i problemi , se li crea, basta che stia male, perché sta bene solo se sta male. In realtà è vero che sono così, ma non solo.
Durante le 13 puntate della serie, quello che sembra superficiale diventa un peso insopportabile da portare e un trauma che nella mente della protagonista non finirà mai. Scopriamo una volta di più che il sistema scolastico americano premia gli atleti e discrimina gli altri studenti, che si sentono solo comparse nella storia dei vincitori. Scopriamo anche che i ragazzi fanno cose terribili alle ragazze e che nessuno le difende, in virtù di un assurdo accordo tacito in cui, nel caso tu sia vittima di violenza e tu non abbia gridato fino a strapparti le corde vocali, allora vuol dire che quasi quasi ci saresti stata.
Non è semplice entrare nella mente di un adolescente quando sei adulto, perché tendi a non ricordare cosa accadeva, vuoi perché hai altre cose a cui pensare, vuoi perché hai deliberatamente cancellato un sacco di cose che altrimenti ti avrebbero fatto male per un sacco di tempo e che invece rimangono a marcire in un angolo della mente finché non le affronti. Gli adolescenti sono definitivi, non sono elastici. Per loro, la reputazione conta più di qualsiasi altra cosa e l’essere accettati dagli altri, sentirsi parte di una comitiva è fondamentale.
La storia di Hannah e dei suoi compagni di scuola è una di quelle che non si dimenticano facilmente e ci sono un paio di sequenze verso la fine che fanno tremare. Arrivare alla fine è prima una noia, poi un dolore e una volta finita non c’è neanche la catarsi che uno si aspetta in una storia di fiction dopo un dramma.
Cosa rimane? Non ne sono sicuro, ma la visione di Tredici potrebbe contribuire allo sviluppo di una nuova sensibilità, in cui il bullo diventi uno sgradevole sfigato nel migliore dei casi, un criminale nel peggiore, senza troppe attenuanti. Ma non solo il bullo da operetta, quello in stile Nelson nei Simpson. Anche il vigliacco, quello che non si è schierato dalla parte della vittima, quello che non l’ha voluta ascoltare, quello che non ha rispettato il suo dolore. Tutti mattoni di un muro che una volta costruito, è difficile buttare giù.
Ha delle scene vietate ai minori di 14 anni, eppure, opportunamente spiegate dovrebbero essere viste fin dalla prima media, perché tra molti che gridano al lupo al lupo, c’è anche chi di bullismo ci muore, proprio come in Tredici.