Dieci film di quelli che un po’ vanno cercati, non proprio d’essai ma nemmeno che trovi su Italia Uno la sera. Di quelli che hai già visto e che oggi è il momento adatto per riguardare, insieme al pacco doppio di fazzoletti, il pigiamone di pile, la borsa dell’acqua calda e un nodo galattico in gola. Di quelli che l’abbiamo capito che sei incasinato, che sei l’ultimo dei romantici e che la vita ogni tanto fa male e questo è il giorno buono per tirare fuori quel pianto che non fai mai perché ti vergogni.
Dai.
Eternal Sunshine of the Spotless Mind
Ci rifiuteremo sempre di chiamarlo “Se mi lasci ti cancello”. Capolavoro di Michel Gondry del 2004, con Kate Winslet e Jim Carrey che si lasciano e lui allora decide di farsi rimuovere i ricordi di loro insieme, ma poi riaffiorano perché quando è merda, è merda. In almeno un paio di scene partono dei singhiozzi epici.
Frank
Questo è nuovo nuovo, del 2014 di Lenny Abrahamson. È la storia del un cantante di una band dal nome impronunciabile, affetto da impossibilità di interagire con la vita senza indossare una maschera di cartapesta. Non ti diciamo chi è l’attore che lo interpreta per non spoilerare, ma se non fai un piantino alla fine, sei morto dentro. Oltretutto la storia è ispirata da Frank Sidebottom, Daniel Johnston e Captain Beefheart. Non so se ci spieghiamo.
The Road
Mamma mia che patimento. Nel 2009, John Hillcoat ha diretto questo film tratto dal romanzo di Cormac McCarthy (il re della risata proprio), con Viggo Mortensen e un ragazzino, costretti a vagare in una terra ormai allo stremo, sia loro che la terra. Post apocalisse, amore padre figlio, sopravvivenza, lacrimoni. Oscuro e magnifico, ma è una gara di resistenza.
Blue Valentine
Nel 2010, Derek Cianfrance decide di fare il film più deprimente di sempre. Prende Ryan Gosling e Michelle Williams e fa vivere loro una relazione talmente vera e sofferta e straziante che quando sarà finito, sarai contento di essere single, così almeno puoi farti i cazzi tuoi. Happy ending, questo sconosciuto.
Lost in Translation
2004, Sofia Coppola, Bill Murray, Scarlett Johansson. Capolavoro minimale fatto di silenzi e di verità. Lui maturo, lei una ragazzina, entrambi sposati, si trovano a Tokyo e sperduti come sono, fanno amicizia che diventa poi un rapporto d’amore platonico e se penso alla scena finale ci piango seduta stante, qui, ora.
Once
Nel 2006, in Irlanda, John Carney ha fatto recitare ai musicisti Glen Hansard e Markéta Erglova, una storia romanzata, in realtà simile a quella che stavano vivendo: lui cantautore di strada, lei ragazza madre, polistrumentista ed immigrata. Scocca l’amore, soprattutto per le canzoni. Musiche da brividi, ghiandole lacrimali attive.
Big Fish
Qui si va nel mainstream, d’accordo, ma quanti pianti… Nel 2003, Tim Burton firma il suo film più bello, con Ewan McGregor, Jessica Lange e Albert Finney (più la bellissima Marion Cotillard). La storia la sapete, inutile dilungarsi. Per l’ultima scena occorre un lenzuolo. Tutti vorrebbero una fine così.
Dancer in the Dark
Lars Von Trier, l’anima della festa non lo è stato mai. I suoi film di solito iniziano male e finiscono peggio. Ma questo strano, grottesco e spietato musical del 2000 con Bjork è talmente drammatico da far stare fisicamente male. Nessuna dolcezza, nessuna lacrima di quelle buone. Quando lo vidi al cinema, dopo la fine stetti 45 minuti senza parlare.
Norwegian Wood
Giappone, 2010, di Tran Ahn Hung, tratto dal romanzo di Haruki Murakami. Chi lo ha letto, sa che dentro, ci sono tristezza a palate, amore, perdita, scelta, morte. Un programma perfetto per il blue monday. In qualche scena, per raccogliere le lacrime non basta una tinozza. Il monologo nel bosco, madonna.
Her
Finiamo in bellezza questa carrellata del dolore con il film del 2013 di Spike Jonze, in cui Joaquin Phoenix s’innamora di un computer con la voce di Scarlett Johansson (e non con quella dell’edizione italiana di Micaela Ramazzotti, vietatissima). Tanto, tanto bello. Basta così.
E ora come stai?