C’è un problema, quando si parla di Daniele Ciprì (e Franco Maresco, suo socio fino a pochi anni fa). Il problema è che si tratta di una di quelle figure che sembrano avere tatuato addosso un aggettivo. E l’aggettivo in questione è grottesco. Puoi girare in ogni modo il discorso, provare a cambiare la prospettiva, ma sempre lì si arriva. Al grottesco.
E così è anche per È stato il figlio. È la storia di povertà di una famiglia palermitana negli anni ’70, sconvolta dalla morte di una bambina, uccisa per sbaglio in un agguato mafioso. Più dell’uccisione, a far saltare i più che precari equilibri della famiglia è la promessa, da parte dello Stato, di un risarcimento milionario.
La prima vera novità è che il film dà centralità a una storia più che a un tono o uno stile. Sfumati gli elementi più estremi e deliranti, che avevano caratterizzato i film realizzati con Maresco, Ciprì ha mantenuto uno sguardo unico e – appunto, non se ne esce – grottesco.
Mancano gli intermezzi surreali, che spezzavano dichiaratamente la trama e che qui sono inseriti all’interno del racconto. Giusto per fare qualche esempio: la figura dell’avvocato forforoso, il prefetto raffigurato come minus habens in un ufficio gigantesco o il vecchio vestito di nero che presidia il cortile del palazzone in cui è ambientata la pellicola.
Il risultato è un film che non è più solo per cultori, ma che allarga enormemente il proprio bacino potenziale di pubblico, grazie anche a un cast che non sbaglia un colpo. E Toni Servillo uber alles senza se e senza ma, al netto di tutte le ironie possibile sul suo inflazionarsi.
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