Lost in Translation è un film del 2003 scritto, diretto e prodotto da Sofia Coppola che ha per protagonisti assoluti Bill Murray e Scarlett Johansson nel ruolo di Bob e Charlotte, due americani che si trovano a Tokyo per motivi differenti ma che condividono lo stesso stato d’animo. Lui è un attore attempato sulla sessantina che è lì per girare un’assurda pubblicità di un whisky, lei è la fidanzata poco più che ventenne di un fotografo hipster che è lì per lavoro.
Entrambi si trovano nel solito albergo e si annoiano mortalmente. Lui è frustrato dalla sua vita e dal suo lavoro che non gli dà più niente, lei dalla mancanza di attenzioni del suo ragazzo, troppo preso dal lavoro per ricordarsi di lei. Si incontrano al bar dell’hotel e in pochi giorni nasce una complicità fatta di silenzi, sguardi e consapevolezza. Ridono, si divertono, si confidano, escono e si prendono cura l’uno dell’altro all’interno di un rapporto tutto zone grigie, di cui non si capisce mai fino in fondo la natura.
Lost in Translation è un film delicato, tutto giocato sulle pause anziché sull’azione. I lunghi momenti di noia e riflessione fanno da sceneggiatura, mentre la troupe ridotta all’osso ruba scene di vita giapponese in giro (per stessa ammissione della regista, non avevano i permessi per girare gli esterni).
Sono passati 15 anni dalla sua uscita. La prima volta l’ho visto in un piccolo cinema di Bologna, era domenica e c’era qualche sconto per gli anziani, quindi ero attorniato da vecchini che credevano di vedere un film comico, vista la presenza di Bill Murray. Ricordo con chiarezza che la sala come si era riempita rapidamente si è anche rapidamente svuotata verso la mezz’ora e le chiacchiere degli anziani tradivano il motivo: “Qui non succede niente”.
Di base era un’affermazione vera, per un film che si legge tutto tra le righe e che ha uno dei più bei finali della cinematografia indipendente. Quel bacio e quel segreto, la frase che Bob dice a Charlotte in un orecchio e su cui noi possiamo solo speculare sopra, oppure lasciarci andare alla bellezza dell’amore ad interim, quello che dura un’ora o una settimana, che nasce sapendo di morire e quindi dà tutto quello che può dare in un tempo piccolo. L’amore impossibile, l’unica forma di amore che dura costante nel tempo.
Mentre guardiamo i due protagonisti cadere l’uno per l’altra siamo trasportati dalla colonna sonora eccezionale, tra My Bloody Valentine, Phoenix, Death in Vegas, Kevin Shields e Air, mentre il gran finale è tutto di Just Like Honey dei Jesus and Mary Chain. Siamo nel 2003, non c’è ancora stato il revival dello shoegaze e ascoltare quell’inno di voluttà, inaspettato e bellissimo, ci strinse il cuore come ce lo stringe oggi, se troviamo il tempo di passare 102 minuti a guardare il nulla in cui c’è tutto. Come una meditazione, come il tempo dilatato della vita vera, come le emozioni che spesso sono intraducibili a parole.
Oggi che la nostra soglia d’attenzione è drasticamente calata, dovremmo regalarci più spesso la visione di film come questo, che all’interno di una cornice zen parlano di noi senza pedanteria e pazienza se alla fine ci ritroviamo ad asciugare una furtiva lacrima: è tutta vita che entra.