Da adulti, capita di smettere di guardare i cartoni animati. Molti di noi non sentono più il trasporto, la sospensione dell’incredulità che li faceva volare da bambini con Peter Pan o piangere per la mamma di Bambi, e allora niente più chance all’animazione, da mettere in cantina insieme ai giocattoli. Poi ci si imbatte in un cavallo parlante che mette a nudo tutte le nostre difficoltà sociali, la nostra depressione e il nostro continuo fallimento, e lì capiamo come in un flash che il posto dei cartoni animati non era in cantina, ma su Netflix.
BoJack Horseman è una serie tv animata creata da Raphael Bob-Waksberg e disegnata da Lisa Hanawalt. La trama è molto semplice: in una Hollywoo(d/b) corrosa da aspirazioni e vizi, umani e animali antropomorfi convivono e non ci fanno neanche caso alle differenze di specie, i problemi sono altri.
Un raro caso in cui ogni stagione è migliore della precedente, per intensità e intreccio narrativo, ma anche per enfasi del dramma, che si fa sempre più oscuro, come il male di cui quasi tutti i protagonisti della serie soffrono: la depressione. Non quella patinata di facciata, quella reale, che ti fa sbagliare ogni passo e ti fa aver bisogno delle persone accanto, perché ti dicano che sei una persona buona, quando da solo non ci credi più.
BoJack è un cavallo di mezza età, che come recita la sigla, era molto famoso in uno show degli anni ’90, poi la gloria gli ha voltato le spalle e lui ci ha messo del suo per rovinarsi, tra alcol, droga, soldi e confusione in testa. Figlio di madre anaffettiva e padre assente, vive tutto male, sempre e comunque. È implicato nella morte di una giovane attrice che lavorava con lui, riesce ad andare in rehab, ma alla fine sembra che il vizio abbia altri piani per lui.
La sua ex fidanzata e agente, Princess Carolyn, una gatta persiana rosa non è da meno. Per lei, l’unica ragione di vita è il lavoro e quando le cose private si mettono male, sogna un futuro in cui una trisnipote parli in classe di quanto fosse figa sua prozia, e di quanto sia andato tutto bene. Ha i suoi bei problemi anche quando ha una figlia e un bello spasimante. Proprio non riesce a godersela (quasi) fino alla fine.
A casa di BoJack abita abusivamente Todd, un giovane umano asessuale e disoccupato di 24 anni, che tenta la via dell’indipendenza buttandosi dentro progetti stupidi e inconcludenti, spesso aiutato da Mr. Peanutbutter, un Labrador affascinante, anch’egli ex stella di una sit-com e sempre sempre sempre positivo, al limite della sciocchezza. La sua ex ragazza è il suo esatto contrario. Si chiama Diane, è umana e fa la ghostwriter. Sempre insoddisfatta e polemica, si getta anima e corpo nelle cause perse, quelle in cui i valori e l’etica contano ancora, finché non trova l’amore della sua vita e s’incasina a scrivere un’autobiografia.
Ogni personaggio ha una profondità rara, anche quelli non protagonisti e ogni storia è importante. Ci sono episodi in cui BoJack si vede a malapena, incentrati sulla vita degli altri personaggi, eppure non vorresti finissero mai, aggiungono sostanza a quel mondo e dall’episodio successivo in poi li guardi in maniera diversa, come fossero amici che ti hanno confessato un segreto che sai solo tu.
Ogni stagione ha il suo fil rouge, ma non è il caso di dire proprio niente in proposito, per non rovinarvi la sorpresa e il batticuore. Se non l’avete mai visto, iniziate oggi stesso. Se il primo episodio non vi convince, continuate. Potrebbe non essere amore a prima vista, ma alla lunga è uno dei migliori prodotti originali di Netflix e ogni battuta, ogni scena, ogni assurdità, disastro, lutto, amore finito o speranza parla di noi, della nostra condizione di esseri fallibili e del magone che arriva quando non riusciamo a raggiungere ciò che ci siamo prefissi.
Pensate l’ironia: ci voleva un cavallo parlante per farci guardare dentro senza maschere, alibi o scuse. A volte facciamo schifo, a volte tocchiamo il fondo senza neanche morire. Pazienza.
Non resta che guardare la sesta e ultima stagione su Netflix (attenzione: fa piangere e in alcune parti è un vero e proprio incubo), e tornare da lui ogni volta che abbiamo bisogno di sentirci umani, con tutte le nostre debolezze e fragilità, per assolverci e consolarci ancora una volta.