Del 1982 non ricordo troppe cose, a parte l’Italia di Paolo Rossi campione del mondo, la Fiat 128 bianca di mio padre, i Puffi e qualche film in tv dopo cena. Era l’anno di uscita di Blade Runner di Ridley Scott, ma ero davvero piccolo, dunque l’ho visto qualche anno dopo, ma neanche troppo. Sarà stato il 1986 al massimo, e ormai all’epoca ero un grande fan di Harrison Ford (e di Sylvester Stallone, per altri motivi). Dio, chi non lo era in quel periodo?
Harrison Ford era il volto e lo sguardo di Han Solo e Indiana Jones, due risoluti e geniali sbruffoni delle saghe più fighe per un adolescente in quegli anni e non avendo avuto modo di vederlo all’opera in altri film, ci aspettavamo di trovare in Blade Runner un nuovo eroe avventuroso, col mezzo sorriso che incanta le donne, la forza bruta solo quando serve e tanto cervello.
Fin dalle prime battute, ci siamo resi conto che Blade Runner non sarebbe mai stato niente di tutto ciò. La fantascienza di quel film era del tutto diversa da quella di Star Wars. In Blade Runner è quasi sempre notte, piove ininterrottamente, così tanto che sembra piovere anche all’interno delle stanze e l’ambientazione nella Los Angeles futuristica del 2019 (merda ci siamo quasi), non è per niente gradevole. Quel panorama angusto e austero che sembra non finire mai, coi suoi palazzi immensi e nessun tipo di natura, toglie il fiato più di qualsiasi minaccia di Darth Vader nella sua astronave bianca.
La natura del racconto ci apparve da subito psicologica, lenta, plumbea e ammorbante, ma non riuscivamo a smettere di guardare. Era un’indagine, sì, ma come non ne avevamo mai vista e i personaggi intrappolati in questo mondo oscuro non erano i mostri simpatici a cui eravamo abituati. Sembravano tutti esseri umani disperati. In quel contesto, anche il nostro idolo Harrison Ford non aveva modo di sfoderare la sua migliore faccia da adorabile bastardo. Ciò che vedevamo noi piccoli era proprio una cosa nuova.
I replicanti, androidi che sono, come da slogan, più umani degli umani, mettono a disagio. La mia versione poco più che decenne, che per la prima volta ha visto il film ne ha respirato l’essenza per poi lasciarseli scivolare di dosso, probabilmente attratto da un altro film. Quella più adulta, che ha visto tutti e tre i montaggi di Blade Runner (l’originale, il bruttino director’s cut del 1993 e il Final Cut del 2007), grazie a loro si è appassionata di tutti i manga a tema, da Video Girl Ai ad Alita, passando obbligatoriamente per Ghost in the Shell.
Gli androidi che provano emozioni, trattati come fossero elettrodomestici da rimpiazzare e gettare via quando non funzionano più. L’alienazione di Rick Deckard (Harrison Ford) che non sa più cosa sia giusto o sbagliato, figlia di quella di Rick Deckard personaggio de Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick da cui il film è liberamente tratto. Liberamente è un eufemismo, oltre al nome c’è ben poco del Deckard fantozziano, con moglie depressa che va alla ricerca di androidi per portare la pagnotta a casa e intanto sogna un animale domestico in un mondo in cui non ce ne sono più, che è il protagonista del libro di Dick.
Il Deckard di Ridley Scott è un detective che sembra uscire dai romanzi hard boiled di Raymond Chandler. Nel film, ci scopriamo spesso a parteggiare per gli androidi, meravigliosamente interpretati da Sean Young (Rachael), Daryl Hannah (Pris) e Rutger Hauer (Roy Batty). Solo loro sembrano avere un fine in un pianeta che ha perduto la propria umanità per diventare un contenitore di esistenze frustrate, mai votate alla felicità.
Solo la scena finale vale il posto nello scaffale dei migliori film di ogni tempo. Il monologo dell’androide che ha perduto il proprio amore e che sta per lasciare la propria vita artificiale è talmente iconico che se qualcuno pronunciasse ad alta voce “Io ne ho viste di cose che voi umani non potreste immaginarvi”, troverebbe sempre qualche altro che continuerebbe “Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.”
E poi insieme a bere alla salute degli androidi, che sono i veri esseri umani del film, perché di fatto la loro ribellione sembra più sensata della caccia grossa da parte degli umani, costretti a vivere in un mondo ormai del tutto compromesso. Poi fumare, sotto la pioggia, ascoltando il sax suadente della greve colonna sonora di Vangelis e lasciare che questa lezione sull’insensatezza delle proprie convinzioni ci stupisca e sconvolga di nuovo.
Dedicato a Rutger Hauer, 1944 – 2019