[QUESTA RECENSIONE NON CONTIENE SPOILER]
All’inizio era lo spauracchio di tutti gli appassionati di fantascienza, di quelli che hanno il mito di Blade Runner inculcato in milioni di sinapsi e non potevano accettare che qualcuno vi mettesse mano. Poi immagini e trailer hanno iniziato a cambiare l’aspettativa, fino a quando, pochi giorni fa, le prime recensioni di Blade Runner 2049 (Warner Bros, al cinema in Italia dal 5 ottobre) arrivate dagli Stati Uniti si sono rivelate ben più che positive. E a quel punto l’onda ha cambiato direzione, spingendo forte e arrivando a scomodare parole importanti. Su tutto, però, incombe sempre il peso di quel paragone, quelle due parole che non possono lasciare indifferenti, perché si parla di Blade Runner e di 30 anni di mito che si porta sulle spalle.
Per questo, approcciando Blade Runner 2049, il regista Denis Villeneuve si trovava di fronte a un dilemma colossale: qualsiasi tentativo di riportare in vita quel film sarebbe sembrata una rianimazione non richiesta, mentre il distacco assoluto avrebbe reso l’intera operazione una furbata commerciale e poco più. Denis Villeneuve, però, è bravo, uno dei migliori in circolazione. L’ha dimostrato già tante volte, l’ultima un anno esatto fa con Arrival, e lo dimostra anche con Blade Runner 2049, riuscendo a trovare un difficile equilibrio tra riferimento e creazione.
La Los Angeles piovosa e illuminata dai neon colorati di Ridley Scott ritorna, ma quasi di sfuggita, giusto come un promemoria che non ha senso appesantire, perché con un’inquadratura tutto è già al posto giusto. Il grosso merito di Villeneuve sta nell’affiancarle un immaginario che si posiziona quasi agli antipodi, ma riesce a essere ugualmente credibile. Ciò che resta negli occhi di Blade Runner 2049 sono le sequenze desertiche, in cui la polvere prende il posto della pioggia e la mancanza di persone va a sostituire la folla indistinta della grande città, in una pasta calda e quasi arancio.
Se dal punto di vista visivo, tutto torna e funziona senza sbavature, resta un po’ di delusione per una scrittura eccessivamente didascalica, che non lascia mai lo spettatore solo ad affrontare il film, ma lo prende per mano in ogni passaggio, cadendo così in eccessi di pedanteria difficili da giustificare. Scelta che va ad appesantire le quasi tre ore di durata e la molteplicità dei temi toccati, che portano a un livello ancora più profondo la contrapposizione umano-replicante, ma finiscono per perdere in potenza per la modalità con cui sono raccontate.
Una delle poche debolezze, perché anche il cast si comporta benissimo, a cominciare da Ryan Gosling, passando per Jared Leto (meno presente del previsto) e arrivando a Harrison Ford. A far girare davvero il film, però, sono soprattutto i personaggi femminili, che coprono tutti i possibili livelli di esistenza: dall’umana (Robin Wright) all’ologramma (Ana de Armas), passando per i diversi modelli di replicante, ognuno con le sue specificità il suo livello di consapevolezza. È proprio nel rapporto con i personaggi femminili che il personaggio principale Agente K ha modo di scavare dentro se stesso e in questo senso non possono non essere sottolineate le sequenze che lo vedono protagonista con l’ologramma Joi, sorta di upgrade tridimensionale del sistema operativo di Her. Dal punto di vista dei personaggi, manca forse un vero antagonista, un Roy Batty 2049 in grado di offrire del carisma oscuro alla pellicola.
Al netto di questo, Blade Runner 2049 è un film più che buono, che però non può fare a meno di portarsi dietro il paragone con la pellicola di Ridley Scott: una lotta impari, che vede di fronte un film e un monumento. Sotto quell’aspetto, l’opera di Villeneuve non potrà mai competere, perché si tratta di una partita che non ha senso giocare, ma che allo stesso tempo è impossibile da rifiutare. Allo stesso tempo, però, è innegabile che il sentimento all’uscita dalla sala sia di assoluta soddisfazione.