Lo definivano “il regista delle donne”. Per la sua unica capacità di raccontarle, in tutti, ma proprio tutti i loro pregi e difetti, in un’Italia che aveva appena vissuto il neorealismo cinematografico e si accingeva a dar vita alle migliori commedie all’italiana. Una sensibilità molto apprezzata anche all’estero, al punto che il MoMa di New York ha scelto di organizzare una retrospettiva sul cinema di Antonio Pietrangeli – Antonio Pietrangeli: A Retrospective (fino al 18 dicembre), il regista romano nato nel 1919 e morto prematuramente annegato nel 1968 a Gaeta durante le riprese del suo Come, quando, perché. Una retrospettiva che analizza tutto il suo cinema e racconta la sua storia, a partire dagli esordi negli Anni ‘40 come critico per alcune riviste specializzate, mentre contemporaneamente si laureava in medicina, e i suoi primi passi sul set come segretario di edizione di Luigi Chiarini, aiuto regista in Ossessione di Luchino Visconti, fino ad arrivare al lavoro di sceneggiatore con Pietro Germi, Alberto Lattuada, Mario Camerini e Roberto Rossellini.
Il sole negli occhi nel 1953 è il suo primo lungometraggio da regista e inaugura con originalità la sua personale galleria di ritratti femminili. Una commedia amara, con osservazioni precise e acute, già lontana dal neorealismo “rosa” che si imponeva in quegli anni. Il cinema di Pietrangeli, più comunemente associato alle commedia all’italiana, in realtà si distingue per la capacità di mantenere un equilibrio tra sfumature umoristiche e grottesche e una dimensione alienante, che sottolinea la profonda solitudine dei suoi personaggi con toni tipici del genere drammatico.
Le sue donne sono giovani e la messa in scena scava nelle loro psicologie, ne vediamo rappresentati i desideri, le frustrazioni, il disagio e la velata disperazione. Il tutto inserito nel contesto sociale dell’Italia del boom economico. L’innovazione del suo cinema, che lo rende ancora oggi fondamentale da studiare, sta nella struttura narrativa volutamente frammentata, con l’utilizzo dei flashback, pur mantenendo lineari le sceneggiature, fatte di dialoghi taglienti, che evidenziano la dimensione malinconica delle sue storie. Un’altra protagonista immancabile è la musica: successi musicali dell’epoca accompagnano i momenti di solitudine dei personaggi. Queste caratteristiche definiscono senza dubbio Antonio Pietrangeli come una delle personalità più innovative del cinema italiano degli Anni ’50 e ’60.
Tra i suoi film più riusciti c’è il bellissimo Io la conoscevo bene del 1965 con Stefania Sandrelli nel pieno delle sue potenzialità. Pietrangeli la volle fortemente dopo averla vista in Sedotta e abbandonata di Pietro Germi e andò contro parte della produzione che non era altrettanto convinta. Nel film la Sandrelli interpreta Adriana, una giovane pistoiese che lascia la famiglia e va a Roma a cercare fortuna. Dopo tante promesse fatte da viscidi opportunisti – un agente pubblicitario (Nino Manfredi), un press agent (Franco Fabrizi) e un attore (Enrico Maria Salerno) – e troppi inutili legami, tornata dall’ennesimo party capirà che per lei non c’è futuro. Costruita come un mosaico perfetto, la storia di Adriana è il ritratto di una ragazza a cui tutto sembra scivolare addosso fino all’improvviso e drammatico finale: “Morale nessuna, neppure quella dei soldi perché non è nemmeno una puttana. Per lei ieri e domani non esistono”, dichiarava Pietrangeli allora. Con questa pellicola il regista fotografa l’Italia degli Anni ’60, malinconica e cattiva, piena di millantatori, arrivisti e volgari seduttori che gravitavano intorno all’allora bel mondo del cinema e dell’apparenza. Sembra che nulla sia cambiato, oggi. Anzi, si sono uniti altri mondi accanto a quello.
Prima di Io la conoscevo bene, Pietrangeli si fece amare per altre pellicole indimenticabili come Lo Scapolo (1955), Adua e le compagne (1960), La parmigiana (1963) e La visita (1963). Ne Lo Scapolo vediamo insieme una coppia unica del cinema: Alberto Sordi e Sandra Milo, scoperta proprio da Pietrangeli. Lo scapolo impertinente che mette in scena Sordi è irresistibile nella sua mediocrità vigliacca di maschio latino e la sceneggiatura gli calza a pennello con battute e gag tipiche da latin lover. Pietrangeli però riesce a mantenere un distacco dal personaggio per evitare la caricatura e lo scivolone nella farsa.
In Adua e le compagne affronta invece la tematica della prostituzione e lo fa a seguito della legge Merlin. Dopo la chiusura dei casini, quattro prostitute – Adua (Simone Signoret), Lolita (Sandra Milo), Marilina (Emmanuelle Riva) e Milly (Gina Rovere) – aprono una trattoria con l’aiuto di un loro cliente e dopo un inizio apparentemente proficuo saranno costrette a tornare al loro vecchio mestiere. La critica qui è nei confronti dei buchi neri dell’Italia del boom economico e con dichiarata polemica sociale il regista mette in scena quattro ritratti belli e commoventi di alcune donne dell’epoca. E non fa sconti nemmeno nella scrittura dei personaggi maschili, non strizza l’occhio né manifesta nessuna comprensione. Nel cast anche Marcello Mastroianni e Domenico Modugno, che interpreta se stesso e canta Più sola.
Per l’adattamento di La Parmigiana, tratto dall’omonimo romanzo Bruna Piatti, traccia senza moralismi e con moltissima ironia un quadro triste e graffiante della meschinità e degli egoismi della piccola borghesia della provincia di allora. Al centro c’è Dora, interpretata dalla sensuale Catherine Spaak, che dopo la prima traumatica esperienza amorosa con un seminarista accumula svariate relazioni alquanto bizzarre: prima con un questurino (Lando Buzzanca) poi con un fotografo opportunista (Nino Manfredi) fino a scegliere di stare in solutine. Già in questo film l’utilizzo dei flashback si rivela molto utile al fine di creare un’efficace narrazione.
Originale e ben riuscito è anche La Visita con Sandra Milo e François Perier. Il film racconta con disincanto e profonda malinconia una storia d’amore impossibile, tra le più belle del cinema italiano di quegli anni, che coinvolge una donna di provincia (Milo) e un commesso di libreria romano (Perier), volgare e meschino, conosciutisi con un annuncio su un giornale. Il personaggio maschile è forse uno dei più neri della commedia all’italiana per la sua avidità ed ipocrisia, perché proprio attraverso lui si arriva a trasmettere allo spettatore un malessere altissimo che affiora semplicemente dall’osservazione “neorealista” dell’umanità senza esagerazioni di nessuno tipo. Anche qui luci puntate sulla solitudine dei personaggi, per mettere insieme l’ennesimo capitolo di una contro-storia del boom italiano unica e indimenticabile.