Intorno al nuovo film dei fratelli D’Innocenzo c’è un mistero fittissimo che regnerà padrone fino all’uscita in sala, a fine novembre. A partire dalla locandina, dove il titolo campeggia in rosso su bianco – accompagnato dalla dicitura “è amore” -, a partire dalla linea che i due registi hanno tracciato alla fine di Favolacce. Era impossibile pensare di aspettarsi qualcosa da America Latina, girato a ruota dopo il predecessore, ma dopo la visione, avvenuta presso le Vie del Cinema di Milano, tutto è molto chiaro.
America Latina è un film di superfici che fanno rimbalzare la luce. Tutto questo conferisce pulizia a ogni inquadratura. Anche dove non sembra minimamente, c’è una puzza di disinfettante che emana dallo schermo, dalle mani di Massimo Sisti, il dentista interpretato da un Elio Germano come sempre in stato di grazia. Non è altro che un ometto piagnucolone, che vive in una casa assurda, la cui vita inizia ad essere inghiottita da un segreto che oscilla tra la sua cantina e la sua coscienza.
Massimo Sisti rappresenta un fallimento, ma fortunatamente non è raccontato come fosse un archetipo. Vive fuori dal tempo, in uno spazio indefinibile della provincia di Latina, ma tutto quello che fa è materiale e concreto. Il suo svanire e il suo corrodersi sotto i suoi stessi strumenti di lavoro si consuma tra le mura domestiche, insieme alle figlie Ilenia e Laura, e alla moglie Alessandra. A vestire i suoi panni Astrid Casali, attrice non ancora trentenne, un angelo dal volto incredibile, che non fa altro che sussurrare nelle orecchie del marito, restituendogli, come tutti, i suoi punti interrogativi con altri punti interrogativi.
Sì perché Massimo Sisti nel suo tracollo sistematico inizia a far domande a cui riceve domande come risposta, non riesce ad uscire dal circolo che gli si sta delineando davanti, a poco a poco. Il suo sogno americano di maschio bianco è destinato ad annegare nella piana di Latina. L’acqua, superficie lucida per eccellenza, comincia a invadere il film – e i nostri polmoni – come materiale annegante, che porta via quasi tutto, pur lasciando traccia. Liquidi sono gli occhi delle figlie di Massimo, sempre più spiritate col passare delle scene; liquida è la melodia composta dai Verdena come leitmotiv suonato nel pianoforte del salotto rosso di casa.
Fabio e Damiano D’Innocenzo hanno messo da parte momentaneamente la sceneggiatura, la passione per la parola che li contraddistingue, e si sono votati totalmente all’immagine. Creata artigianalmente, legata da giochi di specchi, irradiata da luci diverse, irreale. La regia di America Latina è sperimentale e preoccupante per l’ambizione, perché tutto potrebbe crollare dopo ogni inquadratura. Invece basta stare al gioco, perché non c’è granché da comprendere. Tutto è così chiaro e lineare nella narrazione che quasi non ci si crede.
Quello che confonde è pensare come dalla mente di due trentatreenni sia potuta scaturire un’analisi così lucida e spietata di una realtà in cui vivono, in cui viviamo tutti. Semplicemente – ancora una volta – quello dei Dinno è grande cinema, spiazzante capacità di raccontare, fame di pezzi da incollare, in un progetto artistico di cui nuovamente è difficile immaginarsi i futuri sviluppi. Voler affermare inquadratura dopo inquadratura un proprio modo di tagliare la realtà, senza realismo e con vere invenzioni, è degno di chi sta riuscendo perfettamente a coniugare arte e mestiere. Ed è degno soprattutto di menti intelligenti, che scrivono e dirigono un thriller perfetto sapendo dove andare a collocarlo.
Sapendo che Io non ho paura è stato scritto vent’anni fa, ma che rinnovare un mistero con quei toni angosciosi ai giorni nostri può voler dire vomitare definitivamente sul machismo che ha rovinato tutti noi; sapendo che correranno il rischio di essere accostati inspiegabilmente a Parasite, solo per il dislivello spaziale della narrazione all’interno della villa dalla scala blu; sapendo che dopo Quattro Formaggi, Leopardi e Ligabue sarebbe stato troppo semplice far recitare a Germano la parte dello stranello. Infatti il suo Massimo Sisti fa paura perché indaga dentro se stesso e intorno a sé senza voler dar nell’occhio, con assoluta normalità. I D’Innocenzo hanno dimostrato di padroneggiare il thriller con intelligenza, e aiutati dal grande montaggio di Walter Fasano.
Il sonoro è un capitolo a sé stante. Non c’è rumore che metta a proprio agio. Una bottiglietta che si apre, la crostata mangiata, i sorsi di birra, i fiati sempre troppo corti. Si sposa tutto con le suggestioni musicali che i Verdena hanno deciso di tessere, con assoluta discrezione, lasciando da parte lo stoner e i distorsori. Alberto Ferrari &co mugolano, arpeggiano chitarre acustiche e danno colpi di contrabbasso. Fanno il giusto da Dio, accordandosi con le note discordanti e disturbanti di un grandissimo film nelle cui immagini vorremmo perderci di nuovo, dopo aver assimilato per la prima volta il suo modo di parlare. Si esce attoniti dalle visioni dei D’Innocenzo, e sta qui la coerenza che il loro cinema sta acquisendo opera dopo opera. Chi è bravo e sprovveduto fa paura. Fabio e Damiano sono terrorizzanti.