Veterano dell’art house europea da decenni, Roy Andersson è uno di quei registi che sembrano esserci da sempre. Si pensa – anche idealmente – alla sua filomografia, e si immagina una sequela molto lunga di corti e lungometraggi, e invece Roy Arne Lennart Andersson dal 1975 al 2000 non ha realizzato film di lunga durata. Questo About Enlessness – che gli è valso il Leone d’Argento per la Miglior Regia a Venezia76 – è la sua sesta opera. Ed è per questo che sembra essere un piccolo maestro. Quasi ottantenne e sempre composto nella sua assurdità.
Un sacerdote si sveglia in preda alla disperazione di un terribile incubo in seguito al quale ha dubbi sull’esistenza di Dio. Lo ritroviamo poco dopo da un medico – forse uno psicologo- alquanto irrequito perché la fede gli sta sfuggendo di mano. A quanto pare. Beve vino a canna, piangendo, prima della messa. Nella sua ultima comparsa sta urlando “Come si fa quando si perde la fede?”, prima di essere cacciato dalla segretaria del dottore. Un uomo vede da qualche tempo a questa parte Svelker Olson, vecchio compagno di scuola, tutte le mattine salire una scalinata della sua città, ma lui non lo saluta mai. Sono loro due gli unici personaggi ricorrenti in questi quasi 30 quadretti che compongono About Endlessness. Gli altri vengono una volta sola, e vanno via anche molto in fretta, venendo lasciati stare a tornare ai loro pensieri.
Se il piccione del 2015 rifletteva sull’esistenza finita di ogni essere vivente, oggi i piccoli umani beckettiani di Andersson riflettono – e agiscono – sull’infinitezza. La gamma umana si allarga arrivando a mostrarci due estremi inarrivabili. Da una parte gli amanti di Chagall che volano sulla città, sospesi in un amore che li rende creature magiche, dall’altra Adolf Hitler chiuso con tre uomini del suo bunker nei momenti precedenti la morte. E ancora un esercito che ritorna sconfitto a piedi nelle lande gelate della Siberia. Tutte le presenze umane del film sono presentate da una calda voce di donna che si limita a sottolineare il loro “esserci”. Sta a noi individuare dove si apre l’infinito di ognuno, specialmente quando il registro si abbassa nella sfera quotidiana. Cosa sta teso dietro lo scazzo di un dentista che non sopporta i lamenti di un paziente capriccioso? Forse la stessa mole di pensieri che ci vengono in mente quando pensiamo all’applicazione della prima legge della termodinamica. La stessa paura che sopraggiunge quando si prova a dare un corpo all’energia. Sarà banale da dire ma è proprio vero che il pensiero s’annega davanti a questa “infinità”, che si dischiude a partire dalla rottura del tacco di una scarpa, o dalla constatazione che un ombrellino non ci salverà dall’arrivare a una festa di compleanno completamente fradici.
Non c’è alcun idillio leopardiano nelle scene di About Endlessness, ma il candore tipico di Andersson. Il bianco campeggia ancora una volta sui volti degli attori, tolti dalla realtà, e viene richiamato nel chiarore nitido e glaciale delle inquadrature, dove i set realistici si alternano a quelli sapientemente ricostruiti in miniatura con una minuzia da amanuense. Ad incrementare questa inusuale sensazione di pathos pittorico – ancora una volta il riferimento figurativo più evidente è Hopper – arriva un coro natalizio. La patina davanti allo schermo si infittisce, e il palesarsi della finzione ricercata con ogni mezzo emerge in rilievo. Messo davanti all’infinito il piccolo maestro svedese ha pensato bene di ridimensionarsi, rimpicciolendo ancora di più l’ambizione del suo cinema, ma conservando la carica espressiva in ogni secondo di questi preziosi 76 minuti.