Se volete andare al cinema per vedere A Quiet Place preparatevi a fare a meno dei popcorn, se non volete essere oggetto di occhiatacce e maledizioni da parte degli altri presenti in sala. Il nuovo film da regista e interprete di John Krasinski, il tenero Jim Halpert di The Office, è incredibilmente silenzioso, ma non è un film muto ed è tutt’altro che tranquillo. In coppia con la compagna nella vita reale, Emily Blunt, Krasinski confeziona un film horror intenso e tesissimo, che sfrutta al meglio tutte le possibilità di un cinema libero dalla schiavitù del dialogo esplicativo. Per una volta non dobbiamo preoccuparci per gli eventuali danni del doppiaggio.
In un futuro poco lontano, una famiglia si trova on the road in cerca di un rifugio dove sopravvivere alla violenta invasione di strane creature che dilaniano chiunque emetta rumore. I mostri hanno un udito sensibilissimo e sono poco inclini alla socializzazione, quindi gli Abbott tirano avanti a sussurri e linguaggio dei segni, imparato anche per comunicare con la figlia maggiore sorda. A complicare le cose, ci si mette la gravidanza avanzata di Evelyn, che convive con l’ansia di dover partorire in mezzo al nulla e senza emettere un suono.
Di esperimenti con il silenzio nel cinema horror ne sono già stati fatti diversi di recente, pensiamo alla protagonista sorda di Hush – Il terrore del silenzio o al personaggio cieco di Man in the Dark, ma in A Quiet Place siamo a un altro livello. Tutto l’intero film è immerso nella necessità fisica di stare zitti, ci sono pochissime eccezioni, brevi attimi che, nell’assenza generale di rumore, portano un carico d’angoscia e di sorpresa notevoli. Mentre solitamente il silenzio viene utilizzato come espediente per creare tensione, qui Krasinski ribalta la dinamica e crea un ambiente ovattato dove ogni suono inconsulto funge da meccanismo d’innesco per scene ben costruite e decisamente ansiogene. Non solo.
L’introduzione di un personaggio sordo, la fenomenale Millicent Simmonds, crea un contrasto sensoriale potente con le creature dall’iper-udito e regala alla regia la possibilità di giocare con diversi tipi di silenzio: quello all’esterno che viviamo anche noi e quello strettamente individuale di Regan.
Se la comunicazione tra personaggi è ammutolita, lo stesso non avviene con il commento musicale, che accompagna in maniera discreta il film smorzando lo shock della mancanza di voce. Le interazioni tra familiari ne escono addirittura rafforzate. Senza la presenza ingombrante di eventuali dialoghi sdolcinati, il film costruisce un ritratto di famiglia coinvolgente, commovente ed essenziale, perché al centro di tutto c’è pur sempre un’avventura umana, fatta di paura, amore, coraggio, speranza.
Non meno interessante e funzionale, la scomparsa dei dialoghi ci evita l’orrenda possibilità di uno spiegone. Chi sono le creature? Da dove vengono? Cosa vogliono? Dove è finito il resto del mondo? Chi se ne frega. A Quiet Place si gioca tutto sui dettagli: affettivi perché si focalizza tutto sulla famiglia Abbott, geografici perché l’unico spazio che esploriamo è quello che esplorano loro, cronologici perché l’azione gira principalmente attorno alla timeline della gravidanza.
A Quiet Place è da vedere al cinema, è un’esperienza oltre che un film. Sentitevi pure liberi di zittire barbaramente i chiacchieroni da sala.