Art
di Marco Villa 11 Marzo 2016

Luca Font: l’arte del tatuaggio

Writer, scultore e artista: le diverse facce di uno dei tatuatori più famosi d’Italia

Luca Font parteciperà alla mostra Fire & Desire, a Milano dal 15 al 27 marzo

 

Lo studio di Luca Font è in una zona di Milano bellissima, ma in cui non capiterai mai. È a pochi minuti da Porta Venezia, ma non è di passaggio, non ci sono locali, né ristoranti. Una zona residenziale, in cui Luca ha trovato due vetrine affacciate su una via che è la definizione di tranquillità: “C’era uno studio di architetti – dice – E non poteva esserci nient’altro“. Ora è lo studio che divide con la sua fidanzata illustratrice e si presenta sulla strada con due vetrate incastonate da infissi rossi e una porta d’ingresso al centro: sui vetri, tracciati con pennarello bianco, due enormi disegni. Il primo è un cellulare di quelli enormi, epoca anni ’80, da cumenda. Il secondo un ananas con tanto di cannuccia inserita, come a dire che bisogna puntare al succo, evitando tutto il superfluo. Facile dirlo, ma un’ora di chiacchierata ci dimostra che anche Luca Font è così: concetti essenziali, chiari, zero voli pindarici. E la precisa consapevolezza del proprio posto nel mondo e del proprio percorso artistico, che si snoda tra graffiti, tatuaggi e sculture.

Questa molteplicità di esperienze fa di Luca Font uno dei migliori tatuatori italiani, in grande ascesa. Dalla sua una lunga esperienza come writer, riversata nel suo stile nel tatuare: un tratto chiaro e unico, immediatamente riconoscibile. Tenendosi lontano dall’arte ufficiale, nel corso degli anni Luca Font ha portato avanti un discorso sempre più forte, in grado di unire il meglio delle sue esperienze, sempre caratterizzate dalla volontà di posizionarsi lateralmente rispetto all’arte ufficiale.

 

Partiamo dal presente, dalla mostra Fire & Desire di Milano, dove esporrai quattro opere. Di cosa si tratta?
Si tratta di dipinti su legno dedicati a fabbriche, a paesaggi urbani industriali. È un tema che ho approfondito molto in questi anni: la mia produzione è sempre ciclica, amo muovermi. Non rapidamente, ma mi piace approfondire un tema e poi spostarmi una volta esaurito. Le opere che esporrò fanno parte di una serie legata all’architettura post-industriale: ambienti che ho visitato molto in questi anni perché ho dipinto sempre in ex fabbriche abbandonate. Per me l’aspetto graffiti e urbex è stato per due anni un tutt’uno e si è riflettuto in quello che ho dipinto.

Tu parti proprio con i graffiti, come writer
Ho cominciato a dipingere intorno al 1995, quando avevo 16 anni e da allora sono legato al mondo dei graffiti, che continuo a fare quando ho tempo. E voglia. È il modo in cui mi sono avvicinato al mondo dell’arte ed è stato per anni il mio unico modo di fare arte. Non ho una formazione accademica: non ho fatto scuola d’arte o accademia e per la maggior parte della mia vita muri e soprattutto treni sono stati il mio panorama artistico quasi esclusivo. Sono sempre stato più legato a quel tipo di arte che a quella tradizionale: non ho mai dipinto a olio, non ho quasi mai fatto tele, preferisco dei supporti più grezzi. Mi piace lavorare su supporti che non siano il supporto classico, preferisco elementi di riciclo, scarti che trovo o che compro usati.

 

Luca Font nel suo studio Claudia Zalla - Luca Font nel suo studio

 

E poi c’è la pelle, perché sei anche un tatuatore. L’aspetto che più mi affascina del tuo lavoro è quello legato al tempo: se domani non sei più convinto di un’opera come quelle che presenti in mostra, ci metti venti secondi a distruggerla per sempre. Un tatuaggio no e un graffito nemmeno: addirittura il tatuaggio non è più roba tua. Come ti poni di fronte a questo doppio binario che caratterizza il tuo lavoro?
La parte forse più affascinante nel creare qualcosa è che una volta che finisci prende una vita propria, che tu non puoi controllare, né prevedere. Nel caso dei graffiti ho sempre avuto un approccio legato alla natura effimera del graffito, ovvero la consapevolezza di realizzare arte pubblica che spesso aveva vita assolutamente breve. La maggior parte dei graffiti che ho fatto erano su treno e sapevo che, soprattutto dal 2000 in poi, quel treno sarebbe stato ripulito. Magari dopo sei ore, magari dopo un mese, ma sapevi che sarebbe andata così: sarebbe stato cancellato. E il fatto di dipingere in fabbriche abbandonate è lo stesso filone: sei consapevole che, al di là della foto, nessuno vedrà il tuo pezzo. Per me si tratta di un aspetto fondamentale, perché penso sia importante rapportarsi al creare arte senza essere legati all’idea del mercato. I graffiti fanno parte della mia vita per quel motivo, perché è creazione fine a se stessa: lo fai per farlo, non per venderlo, anche perché nessuno potrà comprarlo. In realtà adesso fanno gli strappi di opere come quelle di Blu, però in linea di massima l’aspetto affascinante dei graffiti – ed è quello che fa sì che siano invisi a tante persone – è che non sono monetizzabili. Non puoi venderli, non puoi comprarli e per questo sono percepiti come senza senso. Non puoi inserirli in un mercato: sono oggetti d’arte, ma non puoi collezionarli o farli tuoi in nessuno modo. Ti ci relazioni, fanno parte del tuo quotidiano perché ci passi davanti quando vai a casa e ti piacciono o ti stanno sul cazzo, ma rimangono in un limbo.

 

 

Per un’artista che fa graffiti, quanto è importante il rapporto con chi abita la città?
Quando dipingi i muri in città hai sempre la vecchietta che passa e ti dice che le piacciono i colori. Questa è una cosa importante di quel tipo di arte, che la rende una delle espressioni artistiche più autentiche degli ultimi vent’anni, perché fatico a pensare a Damien Hirst come un artista significativo, al di là del mercato dell’arte: è pura provocazione e puro soldo. Nei graffiti non c’è un aspetto di business, quindi ognuno se ne appropria a modo suo: fanno parte dello spazio in cui vivi e dei ricordi che hai, ma non possono essere davvero tuoi. Il fatto di non poterli vendere fa sì che le persone li creino per il gusto di crearli e forse è l’unico modo di creare davvero autentico, perché non ti adatti a niente e nessuno. Quando fai un graffito, dipingi un muro o fai un treno non fai compromessi di nessun tipo. Fai soltanto quello che senti di voler fare, pensi ovviamente a impressionare gli altri writer, a disturbare le autorità, a mille cose che però non ti fanno uscire in modo da spingerti a compromessi perché il tuo prodotto deve essere vendibile o pop.

Questo però è l’opposto di quello che accade con i tatuaggi, che sono lavori su commissione per definizione
Sì, è esattamente l’opposto. Quando fai un tatuaggio, qualsiasi cosa fai devi pensarla sempre in relazione alla persona che lo vestirà, alla posizione dove verrà fatto, al colore della pelle, a come invecchierà. Nella mia vita queste due cose si bilanciano, anche se il tatuaggio negli ultimi anni ha preso una direzione un po’ più artistica rispetto a dieci anni fa, quando le persone arrivavano con un’idea chiara e con tatuaggi scelti da cataloghi. Ormai ha preso piede l’idea che il tatuatore sia un artista che fa cose sue, quindi magari ti chiedono una cosa precisa, hanno un’idea in testa, ma ti chiedono di farla nel tuo stile. Ed è per questo che per me avere un output creativo differente è importante, perché bilanci la creazione su commissione con quello che ti gira per la testa.

In quanto tatuatore hai una responsabilità non da poco: un tatuaggio è legato a una storia personale, in cui tu ti inserisci. Sai che entrerai a far parte della vita di una persona, potenzialmente per sempre. Senti il peso di tutto questo?
Sicuramente sì, anche se non me ne rendo conto razionalmente. È una di quelle cose a cui ti abitui, perché quel peso ce l’hai tutti i giorni e quindi non lo senti più. Per come sono fatto io, credo di non avvertirlo perché mi rapporto al tatuaggio nello stesso modo in cui mi rapporto a tutto quello che faccio, ovvero cerco di realizzarlo nel migliore dei modi possibili. Per me è più lo stress di sapere, quando disegno, che qualcosa non sta venendo esattamente come vorrei che il peso di sapere che un tatuaggio rimarrà per sempre. Sembra brutto, ma è una cosa a cui uno fa l’abitudine e conta poco che si tratti di una lettera, di un simbolo dell’infinito o di un intero braccio da tatuare. L’impatto è diverso, ovviamente, però sai comunque che se rivedrai quella persona tra dieci anni avrà ancora quel tatuaggio: delle volte è strano, mi capita che lavori fatti cinque anni prima e mai più rivisti tornino sott’occhio perché rivedi quella persona e per una frazione di secondo pensi: “ah, ma ce l’hai ancora”. Come se fosse una maglietta o un paio di occhiali: è la prima cosa che viene in mente, poi pensi che sì, è ovvio che sia ancora lì.

 

Luca Font Claudia Zalla - Luca Font nel suo studio

 

Quella dei trentenni di oggi sarà prima generazione di nonni tatuati. Detta così sembra banale, ma si tratta di un cambiamento davvero pesante nell’immaginario di un’intera generazione, in tutto il mondo, soprattutto se visto in prospettiva: le nostre foto di famiglia saranno completamente diverse da quelle del passato
Credo che il tatuatore sia cosciente del fatto che quella cosa sia permanente più delle persone che si tatuano. Nella mia esperienza mi rendo conto che tante volte viene da chiedere: “tu sai che quello che stai facendo rimarrà lì?”. Perché lo diamo per scontato eppure è qualcosa che vediamo cambiare ogni anno, perché è sempre questione di stili che seguono delle mode: i soggetti di quest’anno non sono quelli dello scorso anno e non sono quelli che ci saranno tra due o tre anni. Penso che la maggior parte della clientela si sia talmente abituata che si infila nella corrente senza pensare che tra vent’anni, quando tu sarai completamente diverso, quello che ti sei tatuato non lo sarà. Questo è più strano del pensare che sto facendo qualcosa che rimane, perché tante volte ti chiedi come reagiranno in futuro le persone alle scelte che hanno fatto adesso. Secondo me abbiamo già un primo assaggio di questa cosa con i tatuaggi che le persone si sono fatte negli anni ‘90 e che adesso coprono. I tribali sul fondoschiena, le roselline sul polso, tutte cose fatte quando il tatuaggio, soprattutto in Italia, era estremamente giovane.

Però in fondo sono quelli i tatuaggi che hanno aperto la strada a tutto
Sì ed erano anche considerati “la figata”, perché 15 anni fa il tribale era il massimo. Eri figo se avevi il tribalino sul polso, adesso invece ti percepisci come ridicolo. Quindi mi chiedo: quelli che magari hanno vent’anni – o anche 45 e si fanno il primo tatuaggio – e scelgono soggetti tradizionali o giapponesi, che probabilmente non appartengono loro per niente, cosa penseranno quando si vedranno nelle foto di famiglia o si riguarderanno nello specchio da qua a tot anni? Negli ultimi cinque anni, quando c’è stato il boom dei traditional, una miriade di persone si è tatuata dei velieri, ma magari metà di loro non sa nemmeno nuotare e non ama il mare. Quando smetterà di essere un soggetto di moda, cosa penserai del veliero che ti sei fatto?

Tornando alle fabbriche abbandonate, si tratta di posti che un futuro invece non ce l’hanno. Hanno avuto un passato che la nostra generazione ha solo sfiorato, eppure in tanti sono affascinati da questi posti, qual è il motivo secondo te?
Probabilmente è voyeurismo. Vedere una cosa che cade a pezzi è sempre più affascinante di una cosa bella, fatta bene. Non credo che noi abbiamo un legame culturale particolarmente vivo con questi luoghi, che hanno smesso di funzionare quando eravamo bambini. Quello che abbiamo in testa legato all’industria è più un retaggio culturale: sappiamo dalla scuola che c’è il settore primario, secondario e terziario, ma il secondario non lo conosciamo, mentre il primario lo sfioriamo soltanto quando andiamo in campagna e ci perdiamo in quelle strade. Credo che sia il fascino della decadenza, sono luoghi che hanno ancora piccoli ricordi di vita. L’ultima volta che sono andato in un posto abbandonato a disegnare, che poi mi sto anche stancando della muffa e delle rovine, sono stato in un ristorante abbandonato: c’era una scrivania mezza marcita e in un cassetto uno scontrino con caffè a 200 lire. È un po’ un meccanismo nostalgico che ti riporta indietro nel tempo, a quando eri bambino.

 

Luca Font Claudia Zalla - Luca Font nel suo studio

 

Quello della nostalgia è un sentimento che torna anche nelle tue opere più pop: sulle vetrine dello studio hai disegnato un telefono cellulare gigantesco e un ananas, ovvero immaginario 100% Miami Vice
Un mondo molto ottantuso. Mi piace molto la tecnologia vecchia, i computer vecchi: mi rendo conto che sono oggetti con cui ho un legame affettivo e di ricordi, oltre a un bagaglio di esperienze che mi permette di raccontare qualcosa. Quando disegno questo genere di cose mi posso permettere di raccontare e trasmettere qualcosa perché sono legato alla vita vissuta di quel periodo. Piccole cose che però sono importanti se vuoi trasmettere qualcosa con quello che disegni. Uno dei problemi principali del mondo dei tatuaggi, da cui cerco di staccarmi dal punto di vista creativo, è che tantissima gente tende a disegnare secondo gli stilemi del momento, che però sono sterili, non riescono a raccontare niente. Li puoi fare tuoi a livello estetico, ma non puoi raccontare niente a livello emozionale se sono cose che non conosci e non sai. Quindi nel mio piccolo mi sono reso conto che disegnare cose che ricordo e ho vissuto per me fa la differenza. Se dipingo il traditional americano, mi rendo conto che manca qualcosa: puoi appropriarti del codice estetico, ma secondo me non puoi appropriarti di quello che c’è dietro. Per questo il vero traditional, la vera tradizione è legata al luogo: è molto più tradizionale raccontare l’Italia degli anni ‘80 e ‘90 che l’America di metà secolo, per me ha più senso portarmi addosso un floppy disc che un’aquila dei marines.

Tu sei di Bergamo, cosa vuol dire essere cresciuto in quel mondo a metà degli anni ‘90, iniziando lì con i primi pezzi per poi spostarti a Milano?
Culturalmente parlando, sono sempre stato una via di mezzo, perché sono cresciuto a Bergamo e sono sempre stato molto legato alla realtà di quello che vivevo, ma ho studiato e lavorato a Milano. Fin da quando ero bambino, però, ho sempre viaggiato molto: i miei genitori erano entrambi insegnanti, quindi avevano tante vacanze e ho passato gran parte della mia infanzia girando l’Europa in camper non appena se ne presentava l’occasione. Questo mi ha permesso di allargare lo sguardo, di tenermi sempre un po’ staccato dal mio ambiente e di non avere paura di posti e situazioni che non conoscevo. Bergamo è una piccola cittadina, ma nei funzionamenti questo significa che è un paese. Anche Milano è così: è una città di medie dimensioni, ma le dinamiche sono molto ridotte, le persone sono tutte collegate tra loro e le scene molto piccole. Milano è così e ha un milione di abitanti, immagina Bergamo che ne ha centomila. Penso ci siano molti aspetti positivi nella vita di provincia: è rassicurante, perché sai come muoverti, sai dove vai, sai cosa succede. Allo stesso tempo però è molto limitante, perché tendi a non confrontarti con quello che non conosci negli anni in cui sei più disposto a sperimentare e a essere curioso.

Luca Font Claudia Zalla - Luca Font nel suo studio

 

Milano la vedi come una tappa o un posto in cui ha senso fermarsi a lungo?
A me piace stare a Milano. Ha tanti aspetti negativi a livello umano, ma ha una dimensione tale che ti permette di avere i vantaggi della città grossa, senza avere gli svantaggi della metropoli. Milano non è Roma: a Roma non ci vivrei mai, è troppo dispersiva, deconcentrante. Qui mi ci vedo anche sul lungo periodo: mi piacerebbe stare all’estero, ci sono città in cui vivrei volentieri, magari per un periodo, ma non ho in programma di farlo nell’immediato. Non escludo di vivere a New York o Berlino, che sono due posti che adoro e in cui si avverte un’energia diversa e l’energia del posto è molto importante. Il fatto magari di confrontarsi con situazioni nuove: è un meccanismo importante.

Per evitare che diventi anche Milano un’area protetta
Sì, sicuramente. Se non sbaglio Tricky aveva detto che, dopo essersi trasferito da Londra a New York, si emozionava quando percorreva in macchina il ponte di Brooklyn e guardava lo skyline. Dopo cinque anni non provava più niente e lì ha capito che era il momento di andarsene. È una cosa molto vera, ma c’è un problema: ogni volta che ti sposti, tagli le radici e non fai più parte del mondo da cui vai via e devi ricominciare da capo, rimettere radici. Però è stimolante, perché ti fa rimettere in gioco e in discussione. E questo è fondamentale nella vita di un artista.

 

Luca Font Claudia Zalla - Luca Font nel suo studio

 

A questo proposito, in apertura parlavi delle fabbriche come di qualcosa da cui potresti staccarti a breve. Verso dove stai andando?
Diciamo che sto cercando di fare cose un po’ più allegre e pop, più vive. Mi sono rimesso a usare i colori, cosa che per un paio di anni ho limitato molto. Penso che sia interessante esplorare un campo diverso, fare delle cose un po’ più retrò come gusto, ma riadattate. Sto lasciando il discorso delle fabbriche e dell’urbex perché mi ero un po’ stancato di questo peso che si porta appresso: il nero, il grigio, l’abbandonato, il decadente, il macabro. Sto usando colori stupidi, tipo celeste, fucsia e giallo, triplette che sono molto pop e mi ricordano determinate cose che c’erano in casa negli anni ‘80. Cerco di metterci dentro il mio interesse per il retrogaming e più passa il tempo, più sto cercando di far convergere a livello stilistico e di immaginario le cose che faccio. Adesso come adesso, se mi metto a fare un disegno mi rendo conto che può andare bene per fare un quadro, un graffito, un tatuaggio, una scultura e sto cercando di fare convergere a livello estetico tutta la mia produzione. Mi rendo conto che è una cosa che mi permette di lavorare molto più agilmente, perché non devo attivare o disattivare un interruttore: ragiono semplicemente su quello che ho in testo e poi lo declino sul supporto.

Hai citato anche la scultura: di che tipo di scultura parli?
Su legno, come sempre. Sto lavorando a cose che sono un’estensione di quello che disegno, portato sulla materia, quindi legno dipinto, ragionato come finto 3D, un ragionare sui layer facendo in modo che diventino un disegno bidimensionale nello spazio. Mi sono messo in ballo sei mesi fa facendo i primi prototipi e ho iniziato a ingrandirmi. A breve farò uscire le prime cose, scatterò delle fotografie e proverò a proporre le opere a gallerie e curatori. Si tratto dello sviluppo naturale di tutto quello che ho fatto finora. L’importante per me è evitare di dipingere su tela, perché lo trovo davvero poco stimolante. Non mi interessa pensare a un’opera immaginandola in un museo: voglio che trasmettano qualcosa. Qualcosa di diverso e vivo.

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