Society
di Marco Beltramelli 10 Marzo 2021

Zlatan Ibrahimovic: l’unica vera rockstar del Festival

Nella settantunesima edizione del festival di Sanremo, che verrà ricordato per la storica vittoria delle chitarre elettriche nel contesto vuoto dell’Ariston, l’attaccante svedese è stata la stella più brillante.

La più grande attrazione della settantunesima edizione del Festival di Sanremo è stata un calciatore, in fondo non giriamoci attorno, è proprio il motivo per cui la RAI ha chiamato Zlatan Ibrahimovic. Ospite fisso, presentatore sicuramente più spigliato di Gabriel Garko, parafulmine e valletta – sostituendo in un sol colpo la schiera di “belle bellissime donne” con cui Amadeus si era circondato l’anno scorso ed evitandogli ogni possibile polemica – l’attaccante svedese è stato scelto per rianimare le ceneri di una rassegna gloriosa come il club cui appartiene, salvatore di un festival in crisi, privo d’idee e di pubblico nell’annus horribilis della musica mondiale.

Sia chiaro, non è la prima volta che uno sportivo appare a Sanremo, tantomeno un calciatore. Anche in questa edizione, hanno fatto capolino sul palco dell’Ariston Federica Pellegrini e Alberto Tomba, portabandiera delle prossime Olimpiadi invernali che si svolgeranno a Milano, due atleti che, al di là dei meriti sportivi, sono stati capaci di farsi conoscere come personaggi attraverso le loro apparizioni televisive, il gossip, e tutti quegli aspetti della vita che non riguardano direttamente la disciplina che praticano.

Messi non si è mai spostato dalla sua confort zone catalana, Ronaldo ha vinto ovunque, ma ogni squadra è sempre stata un mezzo per raggiungere obiettivi meramente personali. Zlatan Ibrahimovic, a 40 anni suonati, ha voluto dimostrare la propria grandezza firmando un contratto con il Milan, uno storico club che navigava in cattive acque (dove ogni attaccante aveva fallito dai tempi di Inzaghi) dimostrando che il suo impatto va ben oltre quello di ogni calciatore normale, va ben oltre l’attributo (comunque cospicuo) in termini realizzativi, ma risiede soprattutto in quello che è il primo vero talento del calciatore svedese: il suo incredibile carisma.

In quest’ottica, la presenza di Ibrahimovic a Sanremo non è sicuramente paragonabile a quella di un altro atleta professionista. E per quanto Totò Schillaci potesse motivare la sua partecipazione all’Isola dei Famosi come un tentativo di sfidare i propri limiti, le differenze sono ben evidenti. Ibrahimovic non aveva bisogno di prender parte a Sanremo, la sua partecipazione al Festival è paradossalmente più paragonabile all’incontro di boxe tra Mc Gregor e Mayweather: come il fighter irlandese, Zlatan voleva alimentare il suo ego cimentandosi in un ambito che non gli era consono, con tutti i rischi e le figure di merda che ne potevano conseguire.

In questa intervista di qualche anno fa, Willie Peyote, concorrente dell’edizione appena svolta, mi raccontava che avrebbe partecipato a Sanremo per gli stessi motivi. Non piegarsi alle logiche del nazional popolare ma piegarle a proprio favore è impresa ardua. Uscire puliti dal Festival è una prova d’inscalfibilità che vale tanto per Ibrahimovic quanto per gli artisti in gara. Zlatan è stato al gioco presentandosi con una musica gitana e cavalcando lo stereotipo dello zingaro, alimentando la gimmick del fenomeno ego riferito parlando in terza persona come Pasquale del Grande Fratello, recitando le scontate battute buoniste dello “swing sanremese”, cantando (si fa per dire) Io vagabondo con la stessa risata naturale che ha sempre assunto quando prendeva in giro i giornalisti che non sopportava.

Quando Ibrahimovic giocava ai Los Angeles Galaxy, ha ammesso di non subire le pressioni degli stadi americani perché era abituato allo scenario di San Siro, aggiungendo inoltre che lui era troppo grande per gli Stati Uniti, che “avrebbero fatto meglio a tornare al baseball”, una frecciatina con la quale preparava il suo grande ritorno in Europa. Ibrahimovic necessità di grandi pubblici per esaltarsi, per esprimersi al meglio, e ora che cercava una location adeguata per raccontarsi, il palco dell‘Ariston era l’unico si potesse paragonare alla Scala del calcio. Suscitando reazioni di amore e odio nei tifosi delle tre principali squadre italiane, Ibrahimovic è l’unico calciatore che poteva stimolare la curiosità di almeno due terzi della popolazione, l’unico tramite intra-generazionale (molto più degli artisti in gara) capace di catalizzare l’attenzione d’intere famiglie riunendole davanti ai televisori.

Ibrahimovic non è più solo un calciatore, è una rockstar (con tutto il rispetto per i Maneskin), e Sanremo non è altro che l’ennesima tappa per alimentare il suo culto. Ed è plausibile pensare non aspettasse altro che un’occasione per mostrarsi finalmente “diverso da loro”, con un’azione avventata, ma, sicuramente, non fuori di testa. Zlatan coglie la palla al balzo in un momento di lucida follia, come in una delle sue tante prodezze sul campo, arrivando all’Ariston a bordo del T-Max di uno sconosciuto, salendo sul palco in ritardo, presentato da Amadeus come Jean-Claude Van Damme in un delirio di pura onnipotenza. Un imprevisto che avrebbe potuto distruggere la scaletta della serata si trasforma nel capolavoro mediatico del festival, mettendo a tacere ogni discussione sull’abito di Annalisa, sull’inadeguatezza dei fonici, superando per distacco l’unica notizia che, sin a quel punto, aveva suscitato un certo clamore: l’inseguimento di tre volanti a Orietta Berti. La conferenza stampa che ne segue è la ciliegina sulla torta, il primo momento di festival in cui il calciatore, fuori dal copione, si comporta con naturalezza.

Ibra non ha mai vinto un pallone d’oro, non ha mai vinto la Champions, ma sembra aver avuto l’intelletto, il carisma e (udite udite) l’umiltà per capire che non sarà mai riconosciuto come il calciatore più forte del ventennio dominato da Messi e Ronaldo. Ed è sul piano umano che attua il suo riscatto, dimostrandosi più uomo, non semplicemente dal punto della virilità, ma nel senso più ampio di persona, dotata di un cuore, di un cervello e non solo di due piedi per calciare un pallone. Nell’identificazione con Dio, sicuramente ironica ma perfettamente riuscita, con cui si è creato un personaggio talmente credibile da non aver bisogno di riconoscimenti sportivi.

Ed ha vinto, anche stavolta, con un inaspettato gol da autore.

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