Ogni estate ha la sua canzone e il suo argomento tormentone da social. Ma ogni estate ha anche la sua parola, che segna per settimane discussioni e dibattiti. E quella parola, nel 2016, potrebbe tranquillamente essere burkini.
Da diversi giorni si parla del costume utilizzato dalle donne che fanno il bagno velate come di un simbolo dell’inconciliabilità tra la visione culturale e religiosa occidentale e quella islamica. Un capo di abbigliamento entrato al centro del dibattito, come già avvenuto con burqa e hijab.
In particolare, ha fatto discutere in questi giorni la decisione di alcuni comuni francesi, tra cui Cannes, di vietare l’utilizzo del burkini in spiaggia. Non si tratta di una svolta improvvisa, visto che in Francia è vietato anche l’utilizzo del burqa e in generale c’è una storica opposizione all’utilizzo di simboli religiosi di qualsiasi tipo in spazi pubblici.
La decisione del sindaco di Nizza ha ricevuto l’appoggio del primo ministro Valls e in questo modo è diventata faccenda non più locale, ma nazionale, superando poi i confini e provocando reazioni anche in Italia. Reazioni che sono state principalmente positive: nonostante una posizione cauta e di buon senso da parte del governo, da destra a sinistra in tanti hanno accolto con favore il divieto. Da destra con il solito riflesso pavloviano del “vi facciamo vedere noi”, da sinistra rispolverando la perifrasi del “corpo delle donne”, diventata ormai una formula piuttosto sterile e vuota, come accaduto con tante battaglie nate da ragioni sacrosante.
Se la prima risposta non stupisce e va in fondo a incolonnarsi con reazioni che di solito partono dal grande classico “perché dobbiamo costruire moschee, se loro non ci permettono di costruire chiese”, diverso invece il discorso riguardo la difesa del divieto da sinistra, posizione sostenuta con forza ad esempio anche da Lorella Zanardo.
Qui il discorso è infatti più complesso, ma allo stesso tempo più paradossale: un divieto è un divieto e poco conta che abbia come obiettivo coprire parti del corpo o scoprirle. Un divieto è infatti sempre e comunque una limitazione delle libertà personali, in questo caso della libertà di una donna di andare in spiaggia e fare il bagno nel modo in cui si sente più a proprio agio. Possiamo non comprendere il motivo per cui una donna voglia coprirsi o essere contrari alla sua decisione, ma vietare questa possibilità di scelta imponendo cosa sia meglio per un’altra persona è un clamoroso errore di prospettiva. Ed è un errore anche se viene commesso in nome di “quelle donne che sono costrette dai mariti”, perché vietare il burkini a chi lo sceglie volontariamente è un atto prevaricatore che si pone al di fuori della tradizione europea.
In tutti questi discorsi, infatti, non si deve mai dimenticare che per l’Europa divieti e limitazioni delle libertà personali di qualsiasi tipo sono sempre e solo delle sconfitte. E decidere sul corpo degli altri rappresenta un passo indietro che non possiamo permetterci.