Quest’articolo è stato iniziato venerdì 2 luglio, in attesa della partita in cui la nostra nazionale, almeno teoricamente, si sarebbe dovuta inginocchiare prima del fischio arbitrale. Il gesto simbolico alla fine è stato adottato anche dagli azzurri, evitando così situazioni imbarazzanti come contro il Galles, ma badate bene, non per aderire al movimento Black Lives Matter, bensì per imitare la squadra rivale. Per portare rispetto al Belgio e alla sua decisione, non per combattere il razzismo (o il nazismo?).
L’uccisione di George Floyd ha portato diverse conseguenze in tutto il mondo -dalla rimozione di Via col vento nei principali cataloghi di film online ai tagli ai fondi della polizia statunitense- prima in America e poi in tutta Europa, con le manifestazioni nelle piazze, ma anche attraverso l’adesione all’iniziativa di artisti, volti noti e sportivi. Il primo atleta a schierarsi in favore del BLM inaugurando il kneeling (l’inginocchiamento che imita l’azione del poliziotto che ha ucciso Floyd) è stato Colin Kaepernick. L’esempio del quarterback di San Francisco (che è stato sospeso dal suo incaricato dalla NFL ed ora si sta ricostruendo una carriera come attivista) è stato seguito da molti altri sportivi di spicco, in particolare in NBA, dove la predominanza di atleti afroamericani rende il tema ancor più cocente. Il kneeling in Europa si è diffuso prima in Premier ed è in seguito in tutti gli altri campionati, ma a dire il vero, è sempre rimasta una manifestazione spontanea, come nel caso di Lukaku, attaccante dell’Inter e della compagine fiamminga, che ha più volte esultato inginocchiandosi dopo un gol.
Si arriva così agli europei in uno stato di totale apatia dell’UEFA, preoccupata solo a riempire gli stadi facendo finta che la pandemia non sia ancora in corso, e di totale anarchia delle nazioni, non solo per quanto riguarda l’adesione a queste manifestazioni politiche, ma anche nella gestione dei tifosi e dei loro viaggi, tra Paesi convinti ad aprire tutte le frontiere ed altri preoccupati per l’arrivo di tifosi infetti nel picco crescente della variante delta. La scorsa settimana vi avevamo parlato delle ingerenze tra la nazionale tedesca e la federazione che non aveva permesso al sindaco di Monaco di illuminare con i colori della bandiera arcobaleno lo stadio cittadino. L’esultanza di Leon Goretzka che mima un cuore con le mani mandando un chiaro segno politico a Orban (che nei giorni precedenti aveva emanato leggi che bandivano la propaganda LGBTQ) rientra nella sfera delle decisioni personali, ma la nazionale teutonica e i suoi interpreti si sono sempre rivelati uniti e favorevoli nell’abbracciare questa ed altre battaglie sociali. Ungheria, Russia e Turchia (oltre alla Croazia) invece sono le squadre che si sono schierate apertamente contro ogni adesione al Black Lives Matter, pensare quindi che le nazionali siano del tutto libere dalle pressioni politiche del proprio Paese risulta quantomeno difficile. È qui sta la base del pasticcio tutto italiano.
Il calcio è uno dei pochi temi che unisce tutti gli Italiani, l’azzurro è l’unico colore che non fa distinzioni politiche, almeno sul campo. Ma sicuramente le fanno i calciatori, e l’Italia è l’unica nazionale che non si è schierata durante EURO 2020, rispolverando quello spirito ignavo che ci ha contraddistinto già dalle guerre mondiali. La nostra federazione ha giocato al cerchiobottismo, dichiarandosi contro il razzismo, certamente, ma anche contro l’adesione a questa manifestazione ritenuta futile. Ma come ci si può schierare contro un movimento antirazzista? L’opinione popolare ha fatto modificare l’azione di molte squadre, le delegazioni di Francia e Inghilterra, ad esempio hanno preferito cambiare rotta dopo le pressioni delle estreme destre dei rispettivi Paesi. I calciatori però avevano aderito in toto alle manifestazioni. In Spagna, addirittura, una frangia di tifosi ha minacciato di non tifare più la nazionale se Morata e compagni si fossero inginocchiati durante le partite dell’Europeo (motivo che renderà difficile vedere un nuovo kneeling in semifinale).
La non posizione della FIGC ha sicuramente creato maggiore confusione negli atleti italiani che, dopo essere rimasti in piedi nella sfida contro la Turchia (ove il problema non si è posto) e contro la Svizzera si sono inginocchiati solo parzialmente con il Galles dando vita a uno spettacolo mai visto prima nella competizione, criticato dagli esponenti politici di sinistra, da Letta alla Boldrini passando per uno degli ex calciatori più illuminati del momento, Claudio Marchisio, ma fornendo anche spunti ed hashtag cavalcati come onde da surfisti destrorsi dell’indignazione. Il calcio d’inizio battuto mentre i calciatori gallesi erano ancora a terra è l’emblema della confusione che regnava tra gli atleti azzurri, ribadita anche in seguito dalle surreali ammissioni di Chiellini. Il giorno dopo la sfida contro la compagine capitanata da Gareth Bale nei vicoli di Roma è apparso un murales (poi sostituito e cancellato dagli attivisti di Casa Pound) raffigurante un calciatore in maglia azzurra (cui sembianze, tra l’altro, ricordano Pessina, uno dei 6 nostri ragazzi che si sono inginocchiati) che abbandona la propia postazione da pedina con la scritta “FIGC”. L’opera di Harry Greb si intitola esplicitamente “Do the right Thing” e ribadisce l’importanza delle scelte pubbliche di personaggi così influenti che, per pressioni o motivi di interesse, preferiscono non esporsi.
Quelli che riducono il kneeling a un filtro con la bandiera francese nella foto profilo su facebook, quei personaggi che inneggiavano a Charlie Hebdo quando il cattivo di turno era mussulmano sono gli stessi che esultavano per l’eliminazione dei cugini transalpini dalla Svizzera non più di una settima fa. Quelli che minimizzavano la questione della black face a Tale Quale Show perché “il nostro retaggio culturale non è paragonabile a quello americano” e utilizzano la dittatura del buonismo per schierarsi contro ogni iniziativa dal valore sociale si sbagliano, e i fatti del MC Donald di Porta Ticinese lo dimostrano: nella società cosmopolita BLM riguarda tutti. Dalla vittoria contro il Belgio, sull’onda dell’entusiasmo, i giornali hanno iniziato a descrivere la svolta tattica di Mancini come una vera e propria rivoluzione culturale, ma per definirsi tale, in realtà, abbiamo ancora molta strada da fare.