Il primo a coniare la definizione “nativi digitali” è stato lo scrittore americano Marc Prensky nel 2001, il termine definisce la generazione dei nati dopo il 1985 che hanno dunque conosciuto sin dall’infanzia un mondo già fortemente influenzato dalla rete internet e dalle tecnologie ad essa legate. Pur essendo stato coniato da tempo e ormai largamente utilizzato anche nella stampa generalista c’è un grande dibattito sulla sua legittimità. Ultimamente poi si è creata una demografica parallela, quella dei Millennials che similmente definisce i nati attorno il 1980 e che sono diventati adulti negli anni 2000. I due insiemi anche se non si sovrappongono totalmente condividono molti elementi. Così mentre gli studiosi sono ancora indecisi sul significato delle parole una recente statistica certifica come proprio i Millennials hanno superato la generazione precedente dei Baby Boomers come popolazione più numerosa negli USA.
Ultimamente ha fatto molto discutere in Italia un articolo del giornalista e studioso Paolo Attivissimo emblematicamente intitolato Per favore, non chiamateli nativi digitali dove l’autore critica la percezione che i giovani siano competenti riguardo i temi del digitale e anzi elenca le ragioni per cui questi sarebbero per molti versi più ignoranti dei propri genitori su molti di questi temi tecnologici. Scrive Attivissimo che i cosiddetti Nativi Digitali “Non percepiscono Internet come un’infrastruttura di base“, “non hanno alcuna percezione del consumo di banda” e colpa delle colpe “non sanno e non possono smontare, smanettare, sperimentare, in parole povere diventare hacker“.
La riflessione di Attivissimo è ispirata da una recente ricerca del Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Milano Bicocca che ha svolto un’indagine sull’uso dei nuovi media tra gli studenti delle scuole superiori lombarde. Per capire meglio se davvero “si stava meglio quando si stava peggio” abbiamo parlato con Marina Micheli che ha fatto parte del gruppo di ricerca che ha svolto l’indagine a cui hanno partecipato 117 classi, di 60 istituti, per un totale di 2.327 studenti, nella primavera del 2012. “L’analisi di Paolo Attivissimo pone l’accento sulla questione cruciale della capacità di porsi in modo critico e attivo nei confronti delle nuove tecnologie. Tuttavia, nonostante muova una critica alla nozione del “nativo digitale” (che comunque nel frattempo è stata parzialmente rivista anche dai suoi promotori), credo che rischi di contribuire a diffondere un’immagine altrettanto stereotipata del rapporto tra giovani e internet, soltanto che lo fa sul versante opposto. Non solo l’articolo tratta i “giovani d’oggi” come se fossero tutti uguali, ma li dipinge come soggetti passivi e sprovveduti (“polli da batteria”).
Marina poi continua precisando: “È senz’altro vero quello che scrive Paolo Attivissimo sull’analisi sul passaggio da un web aperto a un web sempre più chiuso (con la proliferazione di smartphone e la diffusione dei social media commerciali come Facebook), ma questo fenomeno riguarda tutti gli utenti internet (anche tra gli adulti sono relativamente pochi quelli che si ricordano le BBS, sanno cosa si intende per etica hacker nell’accezione originale e conoscono TOR). Drammatizzare la condizione dei giovani non mi pare un modo costruttivo di affrontare la questione rischiando di andare a cadere nel solito dibattito tra apocalittici e integrati“.
Ed in effetti molte delle obiezioni nell’articolo di Attivissimo sembrano non tenere conto del cambio di scenario tecnologico così differente da quello dell’originale rivoluzione digitale dei primi anni 90. Impatti cataclismatici come il trionfo delle interfacce Apple o Facebook che nella loro semplicità di utilizzo e complessiva chiusura sono diventati il paradigma più rilevante e imitato da qualunque altro dispositivo tecnologico. Come potersi aspettare allora da una generazione cresciuta con sistemi di questo tipo una schiera di piccoli hacker agguerriti? Sarebbe davvero utile? In fondo il bisogno di omologare è semplicemente il risultato di una mutazione sociale, un processo necessario quando accedono tante nuove persone ad un servizio come è stato con l’enorme diffusione del web negli ultimi anni.
Allo stesso modo il problema della mancata percezione dell’utilizzo di banda è legata ad un mondo, e una generazione, in cui questa era in una situazione di scarsità e dunque di grande valore. Oggi dove la penetrazione di Internet sta diventando più capillare in Italia e persino la banda larga comincia a farsi avanti ad un livello più ampio sarebbe assurdo porre così tanta attenzione su un aspetto come la connessione alla rete che è ormai giusto dare per scontata, al punto che persino l’ONU la propone come diritto umano inalienabile.
Quando Attivissimo scrive a proposito dei nativi digitali “Chiedete loro come si fa a mandare una mail in BCC o che cos’è un sistema operativo, per esempio; per loro Tor è un personaggio della Marvel” sarebbe divertente fare le stesse domande ad un ultraquarantenne qualunque per gustarsi le risposte. Oltre i battibecchi generazionali il vero punto è che ancora una volta si scambia il nozionismo tecnologico per vera competenza, un problema che in Italia conosciamo bene e che penetra in profondità le istituzioni scolastiche così come, evidentemente, anche chi è cresciuto al suo interno.
un problema che ci ricorda la stessa ricerca dell’ Università Bicocca che scrive: “La competenza digitale non è semplicemente la trasposizione nel mondo digitale della bravura a scuola ma è invece ortogonale a quella“, ricerca che continua così: “L’uso culturale di Internet è più diffuso nei licei, il contrario accade per le attività creative di contenuti, più presenti proporzionalmente tra gli studenti degli istituti professionali e dei centri di formazione professionale” suggerendo implicitamente una democratizzazione dei mezzi nei nativi digitali per cui anche i meno istruiti hanno più possibilità di accesso a strumenti da utilizzare in maniera attiva.
Sempre la ricercatrice Marina Micheli commenta a Dailybest il risultato ottenuto dal team di cui ha fatto parte: “A differenza di attività più tradizionali come la ricerca di informazioni e la lettura di notizie, su questo aspetto [la creazione e condivisione di contenuti online NDR] il tipo di scuola frequentato e la classe sociale non influiscono in modo significativo. Nelle attività definite partecipative sembrano dunque influire meno molti indicatori tradizionali di disuguaglianza. Non vi è una riproduzione lineare della condizione di vantaggio sociale con un utilizzo più intenso o vantaggioso del web sociale/partecipativo. Tuttavia, è pur vero che il livello di istruzione dei genitori è ancora associato, seppur lievemente, in modo positivo allo svolgimento di tali attività. Inoltre abbiamo notato un diverso tipo di investimento e approccio alla produzione di contenuti associato alle variabili di stratificazione sociale“.
Se infatti c’è una questione ancora aperta riguardo l’uso della tecnologia da parte dei Millennials di oggi non è nella loro reale comprensione degli strumenti tecnologici ma nella capacità della generazione precedente, quella dei genitori e insegnanti dei quali anche Attivissimo dice di far parte, ad influenzare questo processo in modo etico e positivo. Non a caso l’intera ricerca si chiude con questo suggerimento: “Questi primi risultati italiani sul rapporto tra uso della Rete e apprendimento dovrebbero mettere la pulce nell’orecchio al sistema scolastico. È tempo di domandarci più chiaramente quali sono gli obiettivi pedagogici dell’integrazione delle Information and Communications Technology nella scuola e nel lavoro a casa degli studenti (che a buon diritto possono essere anche diversi dai meri punteggi dei test standardizzati) e quali sono gli indicatori con cui vogliamo misurarli“.
A leggere i dati della ricerca e le osservazioni di chi vi ha lavorato sembra che commenti come quello di Attivissimo, in linea con la diffidenza delle classi dirigenziali ancora largamente digitalmente analfabetizzate e dunque diffindenti verso le nuova generazioni, nascondano piuttosto il problema di uno scontro generazionale tra due modi di leggere il progresso tecnologico profondamente diversi.
Altrove il dibattito riguardo questi argomenti fondamentali sembra svolgersi in maniera più lucida e meno nostalgica. Kevin Kelly, storico giornalista di Wired America e autore del bellissimo libro Quello che vuole la tecnologia suggerisce appunto come l’uomo si stia semplicemente adeguando ad uno sviluppo tecnologico che ha un suo comportamento quasi-biologico e di come persino il concetto di privacy nell’epoca dei social network debba subire un obbligatorio aggiornamento.
Non più un bene tabù impossibile da condividere ma immaginare un concetto di mutua trasparenza che meglio si adatta alle nuove generazioni indissolubilmente legate alle proprie derive digitali e inserite in un contesto di sorveglianza globale che non possiamo negare a priori quanto cercare di regolare. Una sfida ambiziosa e difficile per chi diventa adulto in questi giorni che proprio per questo va aiutato invece che sterilmente definito come “polli in batteria“.