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L’incredibile storia dei monaci giapponesi che si auto-mummificano da vivi

Quando parli di mummie, pensi subito all’Egitto, ai faraoni e alle maledizioni delle varie piramidi. La mummificazione, però, non è solo quella, è anche (anzi: soprattutto) un processo cui vengono sottoposti ancora oggi moltissimi cadaveri, come sa bene chi ha seguito quel capolavoro assoluto che risponde al nome di Six Feet Under.

Quello che in pochi sanno è che è esistita per quasi mille anni una branca di monaci buddhisti che ha portato avanti quella che può essere definita auto-mummificazione in vita. L’obiettivo era quello di depurarsi completamente, per permettere al proprio corpo di conservarsi in ottime condizioni per l’eternità e senza alcun trattamento.
La pratica si chiama Sokushinbutsu e si calcola che, fino al diciannovesimo secolo, sia stata seguita da migliaia di monaci, anche se solo pochi sono riusciti a portarla a termine con successo.


La Sokushinbutsu prevedeva che i monaci portassero avanti diete durissime, ognuna delle quali lunga mille giorni. La prima era basata esclusivamente su acqua, semi e nocciole, la seconda su radici e corteccia di pino. In concomitanza con la seconda dieta, i monaci iniziavano a bere il cosiddetto tè Urushi, fatto con ingredienti tossici e in grado di uccidere batteri e parassiti presenti nel corpo e di tenerli lontani anche dopo la morte.

Ecco, la morte. Se questi duemila giorni non erano stati una tortura sufficiente, arrivava anche il rituale della morte: i monaci venivano sepolti vivi in una bara, al cui interno veniva soffiata aria con un tubo. Nella bara era presente un campanello, che i monaci dovevano suonare per far sapere di essere ancora vivi. Nel momento in cui il campanello non veniva suonato, la bara veniva definitivamente sigillata. Dopo mille giorni veniva aperta e – in caso di mummificazione avvenuta – il corpo del monaco veniva estratto dalla bara e reso oggetto di venerazione.

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Marco Villa

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