È finito Expo 2015 e lunedì mattina i milanesi imbruttiti potranno finalmente sfogare il loro scoppiettante umorismo da pausa caffè e far sorridere i semplici con “anche questo expo ce lo siamo levato dai coglioni“. Io sono stato all’ultimo giorno di Expo 2015 senza avere mai avuto un’opinione precisa, granitica su Expo 2015: mai stato davvero pro, mai stato davvero contro, mai venerato l’esposizione fino a esagerazioni parossistiche – l’universo #expottimisti – mai detestato come apocalisse di spreco, ruberie e volontari sfruttati.
L’Expo alla fine, ne prendi atto. È lì, c’è. Ma poi come fai a prendere atto di un’esposizione effimera? Non è come i grattacieli in Porta Nuova, o la nuova zona Fiera: in ogni caso, deal with it, che è sempre la cosa migliore da fare, se si hanno superati i vent’anni.
Anche perché lo so io come lo sapete voi, che le verità stanno nel mezzo e le cose mai sono bianche o nere, più spesso sono rappresentabili con una infinita scala di grigio. Così ho deciso di passare tutta la giornata del 31 ottobre a Expo 2015. Dall’inizio – anzi, un po’ prima dell’inizio – fino alla fine. Ed è andata così. Dall’inizio alla fine.
Intorno alle 7.50 sono in treno: è un regionale di Trenord, e sono seduto accanto ad alcune pensionate dall’accento meridionale. È solo una constatazione. Chiacchierano tranquille, dicono cose come “È uno spettacolo eh, al di là delle critiche…”, forse non si conoscono benissimo, o si sono conosciute direttamente quella mattina, perché se dicono una parolaccia prima dicono sempre “Mi scusi ma…” e la dicono.
Si immaginano come passeranno la giornata – a Expo 2015, ovvio – finché una specie di Rosario Trefiletti le interrompe ad altissima voce, da un paio di file di sedili indietro. Non è Rosario Trefiletti, ma immaginatelo fatto come lui, solo, 58 anni, disoccupato da due, impiegato a Expo 2015. Trefiletti – lo chiameremo così d’ora in poi – trabocca gentismo e indignazione, malgrado lavori all’interno dell’esposizione, sembra recitare la parte dello smaliziato, di quello che la sa lunga. Quando attacca contro le multinazionali, in un tripudio di risolini e approvazione delle pensionate, quando spiega con logica ferrea le malefatte della Coca Cola in Messico – “Hanno fatto morire di sete i villaggi” – e che “Visto un padiglione… sono tutti uguali, è come andare al cinema in treddì” faccio due pensieri sulla barnumizzazione dell’evento e sul pubblico e sui pubblici, sui quali prima di vantare gli accessi andrebbe forse fatta una valutazione qualitativa, oltre che quantitativa, ma ci rinuncio.
Sono arrivato, siamo arrivati. Scendiamo.
Entro prestissimo ed è tutto fermo, freddo. Si sta bene. Le proverbiali code devono ancora generarsi, la massa di persone deve ancora entrare. Passo di base la mattina a vagare in lungo e in largo per il decumano. Dall’inizio alla fine la strada è lunga, arrivo a Cascina Triulza e una coppia di pensionati male in arnese – lei bionda, zoppicante, occhi azzurri, rubizza, sovrappeso – mi chiedono tutto. Dal cosa vedere, al dove prendere un mezzo a noleggio per girare l’Expo 2015. Intorno, l’ultimo giorno è calmo.
Rilassato. Le code, certo in pochi minuti ci sono. Il leggendario padiglione del Kazakistan – ricordate quando ci faceva ridere Borat? Erano esattamente dieci anni fa – produce file da sette, otto ore. Quando chiedo all’ultimo che si è messo in fila, se crede ne varrà la pena risponde “Eh, ma tutti ne hanno parlato bene, e voglio fare una cosa fatta bene“. Fatta bene come entrare nel padiglione kazako.
Scorgi un po’ di follia in queste persone normalissime che non sono neanche i tuoi vicini di casa, ma qualcosa di più, sono quelli che incontreresti un sabato pomeriggio nel corso principale del posto dove vivi. Che fanno una cosa del genere, sette ore in coda.
Al padiglione Irlandese mettono su Iggy Azalea e Skrillex. La gente intorno apprezza. Qualcuno si azzarda a ballare senza troppa convinzione, a due passi dalla Madonnina replicata. Pranzo negli stand più poverelli, quelli in fondo, come quello della Palestina o della Giordania. Proprio in Giordania mangio un kebab, parlo con il responsabile dello stand “Cosa farai quando torni in Giordania?” “Torno a scrivere il nome dei turisti con la sabbia“. Ecco.
Dopo pranzo inizia l’attesa per la cerimonia di chiusura. Nello spazio dove avverrà la gente comincia ad affollarsi senza motivo almeno dalle 14. Senza alcuna ragione. Ci sono ancora i volontari che stanno allestendo, che stanno incollando scritte, non c’è niente, solo Finanzieri, Polizia, militari, gente con badge al collo. Eppure sono tutti lì in coda a guardare il niente, così io e qualche altro fotografo di agenzia stiamo lì un secondo, a chiederci perché.
Non c’è perché, forse non avevano niente di meglio da fare. Neanche noi in fondo, che non è al pomeriggio accadano cose grandiose a Expo 2015, nell’ultimo giorno di Expo 2015. Per cui continuiamo a camminare avanti e indietro, indietro e avanti, per il largo e per il lungo, per il lungo e per il largo. Aspettiamo anche noi, in coda muovendoci, invece che in coda fermi.
Faccio un po’ di chiacchiere in giro, e trovo gli expoentusiasti, che sanno godersela, goderecci come Ugo Tognazzi un giorno qualunque del 1985, come Marco, 32 anni, che spiega “A me è piaciuto molto, sarà la sesta volta che vengo, ho fatto lo stagionale. Costava 115 euro. Neanche una sassata. Ho recuperato nelle ultime due tre settimane“. E continua “Il pregio migliore è l’organizzazione, dopo tutto quanto si era detto, il difetto sono le code, ma non ci si può lamentare, se uno ha sei mesi per venire e viene alla fine, ha poco da lamentarsi“. Qualche ora dopo finiremo a bere Ferrari Rosé su una terrazza insieme a Farinetti.
Claudia invece di anni ne ha 54, la trovo seduta che si riposa, tranquilla, vicino all’area della cerimonia finale e mi dice che “Sono qui come visitatrice, e mi è piaciuto tantissimo. È il secondo giorno che vengo, il secondo e mezzo, adesso mi sto riposando, ho fatto un tour de force in questi giorni. È stata una cosa bellissima per me, m’ha soddisfatto tutto… hanno fatto una cosa bellissima, grandiosa. Adesso che finisce tutto, sono un po’ triste, calcolando che hanno dato lavoro a parecchi ragazzi e adesso dovranno trovarsi qualcosa da fare, e in questo tempo di crisi… a me comunque è piaciuto. Prima volta che vedo una manifestazione del genere“.
Cammino un po’ e faccio quattro parole con chi lavora nello stand di un ristorante spagnolo, e Fran e Ana sono concordi, “Muy duro”, tutto molto pieno. Vivono in Spagna, a Valencia e a Barcellona. Hanno delle belle facce stanche, ma si vede che se la sono goduta.
Lucas arriva dalla Repubblica Ceca, è di Brno, potrebbe fare il modello e dice che “It’s ok, mi piace, non ho visto tutto ovviamente, ma quel che volevo vedere l’ho visto. È un po’ diverso da come me lo aspettavo, pensavo fosse più “ufficiale” come evento, e che fosse più sul cibo. Stanotte andrò a stare a dormire da un mio cugino a Varese. Non so nulla di Varese, mio cugino non mi dice niente, vedrò domani com’è“.
Faccio un po’ di interviste in giro, sia volontari che visitatori sembrano soddisfatti, ma non c’è ancora aria da ultimo giorno di scuola. Quella, ma mano che passano le ore, mi accorgo che non ci sarà mai.
Non c’è stata aria da fine scuola all’ultimo giorno di Expo 2015. Faccio quattro parole con gente in coda al Padiglione Italia, lei incinta, insieme ad alcune amiche, è in piedi da un’ora. Parlo con Alessio, volontario e potenziale sosia di Eugene Hutz, òche mi dice che da domani è finita, e che il 3 novembre parte per Madrid. E ricomincia la sua vita nomade, testuali parole.
Sandra invece è nata in Ecuador, sta in Italia da quindici anni, e “Ho fatto tutto, badante, assistente di anziani, babysitter, de tutto, de tutto, tranne il mio lavoro, la parrucchiere. Anche il mio marito, lui è ingegnere industriale, però ha fatto il muratore, l’idraulico“. Mi saluta con un “Hasta muy pronto, e buena suerte“.
La sera assisto alla cerimonia finale. È una cerimonia finale, è fatta bene dal punto di vista spettacolare – d’altrone c’è di mezzo Alfredo Accatino, ed è difficile che sbagli – e parlano un po’ tutti, e dicono tutti il nulla come in tutte le cerimonie di chiusura di tutti i grandi eventi di sempre.
Alla fine giro ancora un po’, e finalmente dopo la cerimonia di chiusura c’è aria di ultimo giorno di scuola. Al padiglione Olanda c’è arietta di disco, ma nessuno è veramente ubriaco, nessuno è fatto. Poi capisco cosa mi sembra l’Expo 2015: una festa organizzata dai genitori. Al padiglione estone c’è un gruppo synth pop che fa cover di Alberto Camerini, in giro per il decumano trovo gente dell’Oman, del Senegal. E poi pian piano nessuno.
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