Le lacrime di Messi passato al PSG per uno stipendio da 71 mln a stagione avevano lasciato intravedere un barlume di umanità nel volto del 6 volte Pallone d’oro. Dietro ogni grande professionista si nasconde pur sempre una persona: vent’anni di vita non si cancellano con un contratto da nababbo. Lacrime di coccodrillo diranno in molti. Persino l’approdo di Cristiano Ronaldo a Manchester, nelle più recondite stanze della nostra mente, non ha potuto che smuovere una certa nostalgia. Dietro la scelta del numero 7 più famoso al mondo, che ha optato per un ritorno allo United, sicuramente si celano mosse ben più ponderate e ciniche: l’incompatibilità con Guardiola, l’impossibilità di accettare il ruolo di secondo elemento in rosa per fascino e talento (vedasi Jack Grealish), l’eventualissima possibilità di trovarsi Sir Alex Ferguson sotto casa. Il portoghese, in effetti, dedicherà il suo ritorno proprio all’allenatore scozzese, un’operazione simpatia -per re-instaurare un legame mai veramente venuto meno con il popolo dei Red Devils- probabilmente pianificata ma capace di mantenere vivo l’ultimo barlume di romanticismo nel circuito sempre più capitalista dello sport odierno. Nell’estate più folle, a livello di mercato, che la storia del calcio abbia mai registrato, il più importante trasferimento non ha sicuramente coinvolto società altisonanti o ingenti somme monetaria.
Parlare di Borja Valero scindendo il calciatore dall’uomo è praticamente impossibile. E parlare di un uomo vuol dire innanzitutto parlare della sua storia. Borja Valero Iglesias, figlio di operari, nasce e cresce a Hortaleza, un sobborgo popolare di Madrid, e come da convenzione inizia a tifare la più grande squadra della capitale. Una trama già scritta, di quelle che si ripetono uguali a ogni latitudine del mondo: il figlio dell’emigrato dal sud Italia nato a Torino che inizia a tifare Juventus e così via… Il rapporto con la camiseta blanca però rimarrà travagliato. Con il Real Madrid il centrocampista spagnolo compirà tutta la trafila delle giovanili -emergendo da la Fabrica, la cantera dei blancos, un nome che sembra rimarcare ancor di più la storia proletaria del calciatore- riuscendo anche ad esordire in prima squadra ma senza mai a calcare il manto verde del Bernabeu, lo stadio che frequentava con suo padre da bambino. La natura dei galacticos sembra non potersi conciliare con l’animo mite di Borja, troppo “normale”, nel fisico, calvo e smunto da impiegato, come nello spirito.
Con la nazionale spagnola non andrà meglio, dopo aver vinto un europeo under 19 (unico trofeo internazionale della sua carriera) da protagonista (segnando un gol decisivo nella finale contro la Turchia che lasciava presagire a un futuro ben più roseo), Borja Valero non ha più indossato la maglia delle furie rosse (se non in un paio d’improbabili amichevoli). Borja Valero è semplicemente stato stritolato dalla più grande generazione di centrocampisti spagnoli mai esistita -da Fabregas a Xavi, da Busquets a David Silva- ma ammettiamolo, avrebbe sicuramente meritato un posto in rosa nelle diverse selezioni iberiche. Borja Valero non è stato escluso per meriti sportivi, è stato accantonato perché nella sua carriera sembra aver preferito compiere sempre passi indietro. Una versione cult di Iniesta, forse un po’ meno forte e un po’ più calva, ma ancor più sensibile e umana. Se il talento del numero 8 dei blaugrana era così smisurato da permettere a Don Andres di costruirsi una grande carriera a Barcellona, la “normalità” di Borja Valero è proprio l’aspetto che dona quel fascino fuori dal tempo al suo calcio. Un calcio che, inevitabilmente, non poteva che trovare la propria realizzazione sportiva e personale lontano da grani palcoscenici delle grandi città, nella patria dell’umanesimo, a Firenze.
Nel capoluogo toscano -dove passerà 6 stagioni per poi tornare con l’aspetto di un naufrago dopo l’esilio interista- Borja Valero diventerà il sindaco, un soprannome che indica il rapporto che lega il numero 20 della Viola, ancora prima che con la maglia, con la città e la sua gente, anteponendo ancora una volta la sua figura umana a quella di sportivo. Borja Valero, lo dicevamo, ha fatto della normalità la sua specialità, preferendo la velocità di pensiero a quella delle gambe, la forza delle idee a quella del corpo, nel calcio come nella vita, esaltando l’aspetto più celebrale del suo gioco (o forse sarebbe meglio dire riflessivo) sino a trasformarlo in un vero e proprio mantra esistenziale (che trova pienamente riscontro nel suo look da filosofo-santone). I fantallenatori spesso gli rimproveravano facesse pochi gol, quest’aneddoto sublima l’idea di Borja Valero come calciatore, un giocatore a servizio della squadra, che non cerca glorie personali. Un uomo sempre capace di fare un passo indietro.
A 40 anni, ormai fuori anche da quella che potremmo definire la fase discendente della sua carriera, Borja Valero è un centrocampista che avrebbe potuto scroccare qualche milione in improbabili campionati arabi e statunitensi o, perché no, giocarsi le proprie carte a servizio di qualche squadra minore della seria A alla ricerca disperata di qualità a centrocampo. In fondo, la corsa non è mai stato il punto focale del suo gioco. Al suo approdo al Villareal il regista spagnolo ha vissuto un periodo di forte depressione, non era abituato alle pressioni, ma soprattutto alle attenzioni, del calcio professionistico, l’adesione ad una squadra di dilettanti significa rinunciare a tutto quel che fa da contorno allo sport per concentrarsi esclusivamente sul suo aspetto essenziale: il gioco. ll Lebowski non è solamente una realtà di culto (il nome prende ispirazione dal film dei fratelli Cohen) è il primo grande esperimento di azionariato calcistico popolare italiano che tenta di sottrarsi alle logiche capitalistiche del business sportivo, una squadra dove l’ultimo dei tifosi conta quando il presidente e i calciatori, dove Borja Valero può sentirsi magnificamente uno dei tanti.
Un team che gli permette di chiudere la carriera a Firenze, dove rimarrà il sindaco per la viola curva Fiesole per la grigio-nero Moana Pozzi. L’ultimo splendido passo indietro di un calciatore unico.