L’Italia è fuori dai Mondiali di Russia 2018. La doppia sfida con la Svezia ha mostrato tutte le debolezze tecnico tattiche e caratteriali della nazionale di Giampiero Ventura e di colpo noi tifosi ci siamo risvegliati adulti, invecchiati di dieci o vent’anni, pronti per archiviare il 2006 e i suoi fasti, gli abbracci in piazza, le canzoni gridate fino a perdere la voce, tutta quella birra finita sulla maglietta, le bandiere e i caroselli coi motorini, il tricolore disegnato in faccia e la maglia azzurra portafortuna, da indossare solo quando serve davvero.
Anche la canzone derivata dal riff di Seven Nation Army dei White Stripes, quel po-po-po-po che ha fatto da colonna sonora all’Italia di Buffon, Cannavaro, Totti, Del Piero, Pirlo e Fabio Grosso, oggi sembra una melodia fuori moda.
Tolta la compagine dei menefreghisti, dei cinici da tastiera che si dichiarano felici per l’esclusione dell’Italia di Ventura dalla competizione sportiva più sentita del mondo, resta tutta una nazione che ancora non ci crede.
I segnali c’erano tutti e da tempo: una squadra senza un modulo di gioco coerente, che si dimentica di attaccare e quando lo fa, ha le punte spuntate, senza leader al centrocampo e bomber là davanti, con un commissario tecnico poco carismatico e un presidente di Lega che ne ha combinate più di Kevin Spacey, coi giovani che somigliano a cantanti di trap e i vecchi che non ce la fanno più.
Eppure l’Italia ce l’ha sempre fatta, anche se sembra ne abbia prese più di Rocky nel primo film, l’incontro finale lo vince di culo e furbizia e genio e guizzo tecnico e quel quid che l’altra squadra, sempre più forte di noi, non ha. È con questo spirito che ci siamo messi davanti alla tv ieri sera: per vedere come fare ad appassionarsi a questa nuova Nazionale, che dovremmo tifare la prossima estate durante i Mondiali di Russia.
Finita la partita abbiamo realizzato cosa sia successo veramente: la fine dell’estate. Per quanto ci sforzeremo di tifare Kamchatcka o Prussia, sai alla fine il cazzo che ce ne frega davvero? Abbiamo perso l’occasione più nazionalpopolare per fare pace, per parlare con persone che non vorremmo vedere neanche dipinte, per godere di un rito che nella sua ipocrisia rimane puro e istintivo, come il piacere di stare insieme solo per criticare, per dirla con Battiato.
La vera entità di ciò che perdiamo è nelle piccole cose: le grigliate alcoliche a casa di amici, le resse davanti ai maxischermi, l’emozionante pre partita in cui si diventa tutti tecnici di livello e quei 90 minuti che quando li aspetti valgono la giornata intera. La Nazionale è un simbolo, diverso dalla squadra di club e i tanti che negli ultimi anni si sono allontanati dalla Serie A e dai suoi scandali, non riescono ad ignorare l’Italia al Mondiale.
Ascoltando l’inno sale di tutto, dai ricordi sbiaditi della corsa di Tardelli dell’82 alla posa tipo statua di sale di Balotelli e tutto quello che ci sta nel mezzo. Il tifo per la Nazionale accoglie tutti e non sentirai mai nessuno dire “L’Italia si tifa sempre, non solo quando gioca le partite importanti”, perché il fine ultimo è farcela, tutti insieme. Gli azzurri, quando vincono, danno la percezione a quelli che perdono ogni giorno di farcela, ecco perché sono importanti. Tengono alto il morale degli altri, quelli che tutto l’anno stanno a dire “Guadagnano miliardi, devono correre”.
Quando ieri Gigi Buffon ha pianto tutte le lacrime del mondo in diretta e ha salutato “Il mio Chiello, il mio Barza, il mio Leo, il mio Lele”, riferendosi al reparto difensivo formato dai grandi vecchi, non era mica facile nascondere la commozione anche da casa. Lui al prossimo Mondiale non ci sarà, e neanche parte di quelli che ha nominato.
Ma poi, chi vuole davvero disputare Qatar 2022, il primo Campionato del Mondo giocato d’inverno, il primo che guarda in modo plateale più ai soldi che ai tifosi? E soprattuto: come glielo spiego a mio padre, che si sta facendo anziano, che dopo la batosta dell’Italia fuori dal Mondiale, non si faranno le grigliate neanche nel 2022? È dal 1958 che non accade, e lui era piccolo, non può ricordare. Mi dispiace più per lui che per me. Ecco perché ieri, la Svezia, se la dovevano mangiare.