In un angolo di verde, in un arboreto a Washington DC, vive una reliquia dell’orrore che proprio gli Stati Uniti causarono al Giappone, esattamente 70 anni fa: la prima bomba atomica sganciata dall’ Enola Gay su Hiroshima il 6 agosto del 1945, alle 8:16 e 8 secondi.
È un bonsai di pino bianco giapponese che è conservato in un vaso da più di 390 anni e che apparteneva a una famiglia che abitava a sole due miglia dal luogo esatto dove cadde la bomba. Sopravvisse alla potenza distruttiva grazie al vivaio murato in cui si trovava ed è stato accudito dalla stessa famiglia e dagli eredi fino al 1975, data in cui venne donato al governo americano come dono di amicizia e di connessione tra due culture diverse, dunque come simbolo di pace.
L’arboreto che lo ospitò però sembra non fosse a conoscenza della connessione tra il bonsai e la bomba atomica fino al 2001, quando i nipoti del mastro bonsai Maseru Yamaki visitarono il museo alla ricerca dell’albero del nonno. Da allora, la storia è stata diramata senza troppa enfasi, nel rispetto delle 140.000 vittime dell’atomica.
Il bonsai è la celebrazione della sopravvivenza e toccandolo, si tocca la storia con mano. Molte generazioni lo hanno lavorato e molte altre continueranno a farlo, per tramandare l’unità e la vita. Contro l’orrore.
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