Ci siamo: è il momento dei Sei Nazioni, il torneo più prestigioso del rugby. Nato intorno alla fine del 1800 è ancora oggi l’evento che meglio rappresenta la tradizione e il fascino di questo sport, un imperdibile appuntamento per appassionati e semplici curiosi. L’Italia proverà a dire la sua, ma anche quest’anno la differenza con le squadre più blasonate sarà difficile da colmare. Abbiamo raccolto dieci curiosità che rendono unico questo sport e vi faranno venire voglia di seguire il torneo.
1. Un pezzo di storia
Il Sei Nazioni è il torneo più antico della storia del rugby, la prima edizione venne disputata nel 1883. L’antenato dell’attuale torneo si chiamava Home International Championship ed era riservato unicamente alle quattro rappresentative delle isole britanniche: Inghilterra, Galles, Scozia e Irlanda. Con l’ingresso della Francia nel 1910 il torneo diventa “delle cinque nazioni”, nome che ha mantenuto fino al 2000, quando la prima partecipazione italiana ha esteso a sei il numero di squadre. Oggi si parla di un possibile ingresso di Georgia e Romania nel torneo, due realtà che negli ultimi anni hanno dimostrato di poter competere ad armi pari con le più importanti nazionali. All’ultimo mondiale, nella partita contro gli All Blacks, il capitano georgiano Gorgodze è stato nominato Man of the Match nonostante la sonora sconfitta. “Ma chi, proprio io?”
2. Tutti i trofei
Anche se il titolo più ambito è quello che viene consegnato al vincitore del Torneo, ci sono altri trofei minori che possono essere assegnati con una singola partita o riguardare più squadre contemporaneamente. Così, la squadra che vince tutte le partite del torneo realizza un Grande Slam, mentre se una delle nazionali delle isole britanniche riesce a battere le altre tre vicine di casa si aggiudica la Triple Crown. Dalla prima edizione del torneo, la partita Inghilterra – Scozia assegna la Calcutta Cup, un trofeo creato fondendo le 270 rupie d’argento che avanzavano nelle casse di una squadra di coloni britannici. Negli ultimi anni sono stati introdotti il Millennium Trophy tra Irlanda e Inghilterra, e la Centenary Quaich tra Irlanda e Scozia. Per non sentirsi da meno, Italia e Francia hanno creato il Trofeo Garibaldi nel 2007.
3. Il cucchiaio di legno e il Whitewash
Oltre ai tanti trofei che vengono assegnati nelle settimane del Sei Nazioni, ci sono due riconoscimenti simbolici che nessuna squadra vorrebbe mai ottenere: il Whitewash e il cucchiaio di legno. Il primo è l’esatto opposto del Grande Slam e si verifica quando una squadra perde tutte le cinque partite del torneo restando a zero punti. Il cucchiaio di legno viene invece assegnato alla squadra che arriva ultima in classifica, a prescindere dal numero di punti fatti. Questa tradizione nasce all’Università di Cambridge, dove fino al 1909 il cucchiaio di legno veniva assegnato allo studente che otteneva il voto più basso agli esami, ottenendo comunque un diploma.
4. Una questione di identità
Dire che il sei nazioni è solamente un torneo di rugby è riduttivo, perché le squadre partecipanti hanno motivazioni che spesso vanno oltre l’aspetto sportivo e si mischiano con la storia e con le tradizioni dei paesi che le sostengono. Così, la nazionale irlandese rappresenta l’intera isola verde e non segue, la divisione politica tra Eire e Irlanda del Nord, come invece accade in altri sport. Nel 1995 la federazione irlandese di rugby ha commissionato al compositore Phil Coulter un inno neutrale, “Ireland’s call”, che viene suonato prima delle partite. Anche la Scozia non ha un inno nazionale ufficiale e ha seguito un percorso simile a quello irlandese, scegliendo la canzone “Flowers of Scotland” dell’artista folk Roy Williamson. Unica differenza: Flower of Scotland non è per nulla neutrale, bensì una canzone palesemente anti-inglese. Certo, non sarà il massimo dell’eleganza, ma vogliamo mettere la soddisfazione di cantare in mondovisione le gesta di Robert Bruce che ha rispedito a casa il fiero esercito inglese e fatto riflettere Edoardo II?
5. La meta
Il rugby non è uno sport conosciuto per la semplicità delle sue regole, ma quasi tutti sanno che l’obiettivo di ogni giocatore è quello di marcare una meta, ovvero appoggiare la palla ovale all’interno di un’area del terreno di gioco. Oggi la meta vale cinque punti e dà la possibilità di ottenerne altri due con un calcio tra i pali, ma non è sempre stato così. Il primo regolamento di questo sport, infatti, non prevedeva alcun punto per la squadra che marcava la meta, dava solamente la possibilità di realizzare il calcio e muovere il punteggio. Ecco spiegato il motivo per cui in inglese si utilizzano i termini “Try” e “Conversion” per queste due fasi
6. Il rispetto
Nel rugby si giocano due tempi da quaranta minuti ciascuno, l’arbitro può fermare il gioco e la partita finisce quando termina il tempo effettivo e la palla esce dal terreno di gioco o viene commesso un fallo dalla squadra che sta perdendo. Può quindi capitare che una partita duri molto di più degli ottanta minuti previsti e non è insolito vedere squadre che continuano a cercare la meta nonostante la vittoria sia già matematicamente assegnata. La filosofia del rugby prevede che la partita e gli avversari debbano sempre essere onorati giocando al massimo delle proprie possibilità e per tutti gli ottanta minuti. Questo principio vale anche per le squadre più forti: abbassare il proprio ritmo di gioco o smettere di cercare la meta solo perché si sta vincendo nettamente significherebbe non considerare l’avversario alla propria altezza. Il risultato è un modo per dimostrare il proprio valore in campo, ma nel rugby non è l’unico metro di giudizio e si può essere soddisfatti anche alla fine di una partita persa di quaranta punti.
7. L’arbitro
Nello sviluppo del gioco, il ruolo dell’arbitro è fondamentale. Come un direttore d’orchestra, guida giocatori in campo, segnala situazioni che possono portare ad un fallo nel momento stesso in cui avvengono e cerca di interrompere il gioco il meno possibile. Nelle fasi statiche (fra tutte la mischia chiusa o scrum) suggerisce ai giocatori la posizione corretta da tenere perché tutto si svolga senza infrazioni e in maniera più o meno sicura per i giocatori. Ma come è possibile tenere a bada trenta energumeni che venderebbero la madre per appoggiare un pallone al di là di una linea? Ovviamente non esiste una risposta unica e ogni arbitro ha la propria strategia, ma in generale si può dire che è l’approccio dei partecipanti a fare la differenza e difficilmente vi capiterà di vedere un giocatore protestare a lungo per una decisione ritenuta sfavorevole. Come negli altri sport, l’arbitro può sanzionare i giocatori con un cartellino, ma il più delle volte può bastare uno sguardo per far capire che si sta esagerando. I’m sorry Sir.
8. Il cap
Nel mondo anglosassone le presenze dei giocatori in tornei internazionali vengono chiamate metaforicamente Caps. Sembra che questo termine, nato agli albori di rugby e calcio, risalga a quando le squadre non si distinguevano per l’uniforme di gioco, bensì per il diverso cappello indossato dai componenti. Se nel calcio la tradizione dei caps non esiste quasi più, nel rugby il mondiale si apre con una cerimonia di benvenuto dove i giocatori ricevono il caps celebrativo.
9. Perdenti di successo
Guardare le statistiche dell’Italia al Sei Nazioni è un esercizio che fa bene all’ottimismo: togliendo alcuni anni in cui gli azzurri sono riusciti a lasciare il segno con prestazioni sopra alla media, i numeri non ci sono per nulla amici. Dato che la nostra nazionale è stata ammessa solo quindici anni fa possiamo ancora dire di essere la squadra con meno cucchiai di legno, ovviamente solo perché abbiamo giocato un centinaio di tornei in meno rispetto agli avversari più longevi. Prendendola con filosofia c’è una statistica che conferma la straordinaria generosità del nostro paese: l’Italia fa battere un sacco di record agli altri. Nel 2001, ad esempio, Inghilterra- Italia ha reso immortale Johnny Wilkinson, che in un colpo solo ha battuto il record di punti segnati e trasformazioni in un’unica partita, andando poi a prendersi gli stessi record relativi all’intero torneo.
10. Come andrà quest’anno?
I primi quindici anni di presenza della nazionale italiana al Torneo sono stati caratterizzati da prestazioni altalenanti e spesso poco colorate, tant’è che nell’ultimo periodo qualcuno ha addirittura sollevato dubbi sulla nostra futura permanenza. Nonostante questo, le persone riempiono l’Olimpico, la nazionale viene seguita anche all’estero e i tesserati sono raddoppiati dal duemila ad oggi. Pur non essendo diffuso in maniera omogenea, il rugby italiano può contare su una serie di distretti che sono veri e propri polmoni per tutto l’ambiente. Qui il rugby è un affare di famiglia, si cambia la lavatrice ogni sei mesi a causa del fango e i fisioterapisti guadagnano come petrolieri aggiustando spalle e sistemando strappi muscolari.
Ma che tipo di Sei Nazioni ci aspetta? Anche quest’anno sarà molto dura per l’Italia, ma sappiamo che le motivazioni dei giocatori e dello staff sono altissime. Anzitutto Il commissario tecnico Brunel lascerà la guida della squadra dopo il torneo, e tra i 30 convocati per le prime due partite ci sono 10 giovani esordienti che non vogliono lasciarsi scappare l’occasione. Senza troppe ambizioni di risultato, l’obiettivo è dimostrare la maturità del nostro rugby e la capacità di ridurre progressivamente il gap che ci separa dalle squadre più forti.