settimana senza smartphone

Sono stato una settimana senza smartphone, internet e telefono

Niente internet, niente connessione telefonica, niente tv, contatti umani poco o niente. Il paradiso: ma per non più di una settimana

Da qualche anno una buona parte degli italiani ha in tasca uno smartphone: solo nel 2016, secondo i dati di Audiweb erano 32,7 milioni – il 68% della popolazione tra gli 11 e i 74 anni – gli italiani che accedevano a internet da smartphone, ora di certo saranno ancora più a utilizzare questo strumento geniale che ci permette di accedere a informazioni e conoscenze che prima avremmo dovuto approfondire studiando libri, o davanti uno schermo di un computer.

Uno strumento geniale lo smartphone, che però ha proseguito lungo la strada di reperibilità, stress e scocciature nata con il telefono cellulare. Nessuna intenzione luddista, per carità! Indietro non si torna: lo smartphone è utile. Sarebbe però idiota negare che lo smartphone sia anche nemico giurato di un aspetto prezioso delle nostre vite e del nostro equilibrio mentale, la concentrazione. Eh sì: la concentrazione non se la passa bene tra internet e smartphone.

A meno che non ci diciamo: il modo con cui ragioniamo, con cui ci concentriamo, con cui pensiamo, è cambiato con l’iperconnessione di questi anni. E gli smartphone insieme alla disponibilità di un accesso online continuo sono per il nostro modo di ragionare come l’approvvigionamento idrico da quando abbiamo avuto l’acqua potabile in casa.

Una rivoluzione su cui è superfluo riflettere, è tra noi, prendiamone atto e via: io stesso la vedo in parte così, ma per me non siamo ancora arrivati a quel momento. Adesso siamo ancora in una fase di adolescenza tecnologica, dove l’ubriacatura da iperconnessione è ancora difficile da limitare.

 

 

Perché è bella. È piacevole. Perché ci fa credere di essere in contatto con gli altri, mai soli. Immersi nella sensazione che stia sempre per succedere qualcosa di fondamentale, che quella breaking news sia davvero breaking, che stia sempre per succedere qualcosa che ci cambierà la vita. Cazzate.

io in queste cazzate vivo immerso, e da anni. Ci vivete anche voi. E da esse non solo sono sommerso, ma ci lavoro, mi ci diverto, mi ci nutro, passo le giornate davanti a un computer e non stacco mai, attaccato poi anche al mio smartphone pressoché in ogni momento di veglia.

Così ho voluto fare un esperimento: mi sono isolato volontariamente senza smartphone, connessione internet, telefono, o altro per una settimana, dal 26 dicembre al 1° gennaio, in un luogo defilato. Ho fatto esattamente come si viaggiava 25, non 250 anni fa. E sorpresa, si sta alla grande.

Le cose più importanti che vengono fuori da una settimana di isolamento completo, senza internet, senza social media, senza connessione di alcun tipo, neanche telefonica? Sono diverse.

La prima è l’irrilevanza completa di tutto quello che passa e mi propone Facebook. Lasciamo perdere Twitter, LinkedIn, Instagram, “gli altri” social media in genere, non penso neanche che mi abbia sfiorato il pensiero in una settimana. Ma Facebook no, è stato diverso, ed è saltata fuori la totale irrilevanza dei contenuti che mi propone, e anche di quello che pubblico personalmente, io per primo nutrendo la macchina. Il nostro digital labor serve a Facebook, a lui fa del gran bene, non a noi.

 

 

Niente è davvero importante di quel che leggiamo ogni giorno sulla home di Facebook, niente è importante di quello con cui con tanto vigore ci si accapiglia, si litiga, si commenta, è roba che non serve a niente. Non è nichilismo: è realismo. Magari è divertente, ci intrattiene: ma è tutto fuorché importante.

Infatti mi è bastato tornare al lavoro: e in un giorno deflagra il delirio di Grillo sui giornali, giornalisti e giurie popolari – dove se ne parla? Ovviamente su Facebook… – delirio cui Enrico Mentana risponde sempre su Facebook, dopo che tutti, tutti, tutti, avevano condiviso su Facebook la vignetta del New Yorker, quella del passeggero che guida l’aereo per alzata di mano. Sciocchezze che domani dimenticherò e dimenticheremo.

Potevo sapere nulla di tutto questo e la mia vita sarebbe andata avanti nello stesso identico modo: e lo stesso voi. Eppure oggi lo so, e anche voi. Diamo forse eccessiva importanza all’informazione e ai contenuti cui accediamo e che noi stessi produciamo in gran parte sui social media, dove il 99,9% del contenuto è in fondo irrilevante, è intrattenimento, quindi in ultima istanza è superfluo.

L’unica notizia di cui ho saputo in una settimana senza internet, smartphone o altro, è stata di una barca andata a fuoco in un porto della costa, a diversi chilometri da dove mi trovavo. Tre morti, una superstite.

M’era venuta una mezza idea di andare a vedere il relitto, poi ho detto: ma perché? Nient’altro. Non ho volutamente comprato giornali: ne ho sfogliati al bar, neanche al mattino, spesso a fine giornata, quando la loro obsolescenza programmata li faceva maturare sul loro alberello, il cassone dei gelati; e diventare adatti giusto a incartare il proverbiale pesce.

 

 

Una settimana, una notizia: una buona media, se penso che poi era comunque una notizia inutile ai fini della mia permanenza, che sensazione magnifica. Ma non ti mancavano gli altri? Ma certo! Ma non è che si erano vaporizzati. Erano altrove, io ero da un’altra parte: infatti qualche telefonata da cabina telefonica l’ho fatta, ed è stato assurdo usare oggi uno strumento che forse nemmeno più il terrorismo jihadista sceglierebbe per rivendicare un attentato.

Ah, in caso vi venga voglia di ripetere l’esperimento, ricordate: chiamate numeri di casa, da cabina a cellulare si spende un patrimonio.

Motivo per cui però non perderete tempo in chiacchiere, e andrete dritti al punto nelle vostre conversazioni, ammesso che ne abbiano uno, di punto, e non siano inutilissimi “Ti ho chiamato per un salutino“.

 

 

Che ho fatto? Non mi sono annoiato come pensavo alla partenza. Ho scritto parecchio: non avendo distrazioni si lavora benissimo. Sono andato avanti su un progetto che sto facendo per conto mio, che mi prendeva bene o male tutte le mattine. I pomeriggi? Passeggiavo, andavo a vedere qualche borgo, leggevo. Le sere? Cucinavo, scrivevo o leggevo, dormivo.

Ho scritto anche tre lettere a mano, a tre persone importanti della mia vita: saranno stati vent’anni che non scrivevo a mano una lettera. Mica lettere lunghe pagine e pagine con chissà quali rivelazioni, due facciate esatte.

Lettere scritte però ricordando, usando la memoria, concentrandomi, non in due secondi di frammento di attenzione nella chat comune di WhatsApp, o di Facebook Messenger. Non so se saranno felici le tre persone che le riceveranno, lo spero, magari saranno solo incuriosite: a me ha divertito molto scriverle quelle lettere, e soprattutto pensare all’amicizia, ai rapporti tra persone, a come ci si poteva pensare e portarli avanti forse una ventina d’anni o più.

Dal punto di vista professionale ho verificato una cosa che sapevo benissimo da anni: tutto è rimandabile, a meno che stiate operando a cuore aperto, e (quasi) tutto si può delegare. Quello che non si può delegare, incredibile! Si può rinviare. “E il cliente?!?” pigolerà il pulcino di account disperato, e niente: il cliente cortesemente aspetterà. Una settimana in più o in meno, a meno che passiate la giornata su un tavolo operatorio non cambia niente.

Se poi ben ricordo di solito gli elementi più isterici del terziario avanzato non operano in una sala sterilizzata: tantomeno in camice verde.

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